Sono a Chengdu, città da 15 milioni di abitanti nell’ovest della Cina, per il Challenge Bibendum, manifestazione internazionale sulla mobilità sostenibile. Girando tra gli espositori, qualche università a parte, non c’è traccia di aziende cinesi. Automobilistiche comprese. A Chengdu ci sono 400 aziende dell’indotto dell’auto e gli stabilimenti di Faw-Volkswagen, Faw-Toyota, Dongfeng-Psa, Volvo, Geely e Wangpai Motor (veicoli pesanti) che producono oggi circa 800 mila veicoli e 2 milioni ne sono previsti nel 2020.
Nulla. Eppure anche durante la cerimonia di apertura, sul palco Wei Hong, governatore della provincia di Sichuan (di cui fa parte Chengdu), ha dichiarato che il suo territorio “è attento all’innovazione e alla sostenibilità e considera in primo piano il problema della mobilità”. Eppure il governo cinese non perde occasione di ricordare il suo impegno (e gli incentivi) nei confronti dell’auto elettrica e ibrida. I numeri sono tuttavia deludenti: solo 47 mila le elettriche e le ibride ricaricabili vendute in Cina nel 2014. E ora ci sono segnali che proveranno con il metano, come ne ho scritto sul Corriere della Sera.
Qualcosa forse cambierà, dopo l’accordo delle sorse ore tra Obama e il presidente cinese Xi Jinping per la riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030. Ma vista oggi da Chengdu, la mobilità sostenibile in Cina è davvero una priorità?