L’Italia non manca di fabbriche-simbolo, Mirafiori su tutte. Ma forse ce n’è una sola che racchiude in sè una incredibile molteplicità simbolica: Pomigliano, la vecchia e mitica Alfasud. La cronaca di questi giorni l’ha riportata sulle prime pagine per uno sciopero flop (5 aderenti su 1.400 operai) della Fiom. Proprio la Fiom negli anni scorsi era scesa in guerra contro il “modello Pomigliano” lanciato da Sergio Marchionne nel 2011:  contratto aziendale e sindacato coinvolto ma “punibile” in caso di sciopero selvaggio. Quale altra fabbrica farebbe convivere nel proprio dna rivoluzione (di Marchionne? di Landini?) e al tempo stesso controrivoluzione?

Eppure quello di rappresentare le contraddizioni italiane è il destino di questo stabilimento che ne ha viste di tutti i colori:  figlio dell’intervento pubblico negli anni Trenta (la prima pietra dell’attuale fabbrica fu posta dal Duce nel 1939 per costruire aerei militari) ora è diventato l’emblema della Fiat globalizzata di Marchionne. Le tante Pomigliano e le tante storie di Pomigliano sono racchiuse in un ricchissimo libro scritto dal giornalista televisivo Giuseppe Pesce (“Alfasud: una storia italiana, Ediesse, 148 pagine, 10 euro“) che ne ripercorre tutta la vicenda con il ritmo incalzante e profondo di un documentario tivvù.

Ne emerge un racconto brillante dove i grandi eventi che sconvolgono più volte la fabbrica e il suo popolo vengono intervallati da una napoletanità talvolta spassosa e spesso tragica. Come ad esempio la pagina dedicata all’esattore giudiziario di Pomigliano, Raffaele Ronzo, che alla vigilia della guerra, essendo rimasto senza lavoro dopo l’ondata delle prime migliaia di assunzioni, scrive a Mussolini chiedendo come rimborso di essere assunto a sua volta. O come quella del primo bombardamento inglese del 27 gennaio 1941, quando la totale latitanza della Regia contraerea consente agli aerei di Sua maestà di scendere a 600 metri per accanirsi sulla fabbrica distesa su 3,3 milioni di metri quadri con l’incredibile risultato di non colpire praticamente nulla.

Tragiche sono invece, le pagine di sangue. Non solo per le imprese delle Br degli anni Settanta intrecciate in qualche modo a un certo ribellismo (nel ’65 scattano 4 licenziamenti per un’aggressione al capo della vigilanza). Colpisce l’amaro destino di Ugo Gabbato, primo vero manager della fabbrica. Gabbato era un ingegnere milanese formatosi nelle fabbriche tayloriste americane che l’Alfa Romeo aveva strappato alla Fiat. Realizza un fior di stabilimento assieme alle case per gli operai e dopo il 25 aprile viene assolto dall’accusa di collaborazionismo da ben due tribunali partigiani solo per essere freddato da un estremista isolato. Oppure come il caso dell’operaio comunista Raffaele La Gatta che nel 1961 durante uno sciopero viene ferito, assieme a 32 colleghi, dai colpi sparati dalla Celere: si salva, ma porterà con sé la pallottola per tutta la vita.

Ma la storia di Pomigliano, è evidente, è soprattutto quella dell’Alfasud, un modello d’auto lanciato nel 1971 (dopo tre anni di ristrutturazione della fabbrica) tanto innovativo quanto sfortunato; del suo papà, l’ingegner Giuseppe Luraghi, manager geniale, socialista, bocconiano e appassionato di poesia; e dell’idea dell’industrializzazione forzata del Sud che rovinò un progetto per molti aspetti affascinante.

Le foto dell’Alfasud tutt’ora procurano tuffi al cuore di molti alfisti. L’auto non fu, come Pesce conferma, solo “un ammortizzatore sociale su quattro ruote”. L’Alfasud montava un motore boxer, a cilindri contrapposti, sfruttava molte soluzioni il successo della Giulia e adottò per la prima volta sistemi innovativi come la “vasca servizi” che facilitava la manutenzione. La vettura era figlia di un trio di progettisti di primordine: l’austriaco Rudolf Hruska che si avvalse dell’ingegner Domenico Chirico per la motorizzazione e di Giorgetto Giugiaro per il design. Il modello, nonostante mille problemi, raggiunse discrete quote di mercato ma non tagliò il suo vero traguardo: garantire il futuro dell’Alfa Romeo.

Luraghi immaginava una grande Alfa Romeo che, in quanto industria basata su un impiego massiccio di manodopera, avrebbe dato un contributo importante a ridurre la disoccupazione nel Sud. Fu osteggiato con durezza dalla Fiat (che però proprio nel ’69 decise di costruire sei fabbriche nel Mezzogiorno), dalle sue stesse strutture milanesi (i manager lombardi vedevano Pomigliano come una mera parentesi della loro carriera) ma soprattutto dalla politica. Fu cacciato e riassunto. Si alleò sotterraneamente col Pci ma dovette piegarsi ad assurdità come quella di progettare altre fabbriche nei feudi locali dei boss democristiani campani.

Già, ma perché l’Alfasud non funzionò? Perché fu un’ottima idea maturata negli anni Sessanta ma paracadutata nella confusione del decennio successivo e in un territorio che non capì (anche se poteva farlo) la fortuna che gli era capitata. Poi accadde di tutto: l’acciaio delle prime carrozzerie era arrugginito, nel ’73 scoppiò la guerra del kippur seguita dalle “domeniche a piedi”, nel 1974 ci furono 1.437 fermate per sciopero di cui solo 85 indette dal sindacato. Walter Tobagi nel 1979 descrisse una classe operaia “fatta di casi personali, rabbia e maldicenza”. Il sociologo Dario Salerni nel 1980 fu pesantissimo: “Non c’è altro fenomeno della realtà industriale italiana tanto abbandonato alla superficialità e alle distorsioni dell’informazione giornalistica e della polemica politica. Sul caso Alfasud l’unica a tacere è stata la cultura industriale”.

E’ un vero peccato che il libro di Pesce indaghi solo velocemente sull’ultima fase di Pomigliano, quella targata Panda e Sergio Marchionne. Nel 2012 alla Fiat di Pomigliano è andato il premio di miglior fabbrica d’Europa. Una trasformazione che resta tutta da indagare.

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