Le indicazioni usate da Sergio Marchionne a una manifestazione Ferrari per definire la crisi della Volkswagen per una volta coincidono con quanto scritto da Francesco Paternò su questo blog. Leggo qui della necessità di una rifondazione culturale per Volkswagen, in perfetta sintonia con le dichiarazioni formulate dal gran capo di Fiat Chrysler. Persino le parole di Marchionne coincidono: “Il loro problema non è sulla misura ma sulla cultura, non ha niente a che fare con il diesel”. E ancora: “Io non avrei fatto così, come hanno fatto loro, cioè cercare di gestire un’azienda globale con la centralizzazione delle decisioni”.
Già, ma come fa Fiat Chrysler? Quello del modello d’impresa marchionniano è uno dei temi – anche per responsabilità dello stesso Marchionne – ampiamente sottovalutati dall’opinione pubblica italiana. Che in questi anni ha continuato a giudicare Fiat sulla base dei grandi filoni classici d’analisi che si sono radicati in Italia durante la gestione dell’Avvocato: o gli alti e i bassi del conflitto sindacale (rinfocolato dal “caso Pomigliano”) oppure l’evoluzione (o non-evoluzione) dei modelli d’auto.
E invece Sergio Marchionne ha portato in Fiat un modello di gestione imprenditoriale basato su un concetto semisconosciuto alle élite manageriali, sindacali e politiche italiane: l’orizzontalità. L’applicazione di questa filosofia – che in fondo è il sale della globalizzazione – può piacere o meno ma è senza ombra di dubbio uno dei “segreti” che hanno consentito sia a Fiat che a Chrysler di uscire dal vicolo cieco nel quale si erano infilate. Quello di Auburn Hills è un caso di scuola perché va ricordato che proprio qui la centralizzazione (e la supponenza) imposta da Daimler determinarono un gigantesco gorgo fallimentare che quasi inghiottì la casa madre.
Poiché nessuno è profeta in patria, Marchionne ha trovato qualche imitatore all’estero. In particolare in Francia (qui il link) dove Alain Dehaze, patron di Adecco ha (ri)strutturato l’azienda esattamente sui canoni marchionniani: via il centro (infatti sia il Lingotto che Auburn Hills sono spopolati rispetto alle ridondanze di qualche anno fa), via interi livelli gerarchici così tanto amati da schiere di manager, chiusura d’imperio per comitati e direzioni, riporto diretto al capo azienda non di due o tre responsabili di grandi branche aziendali ma di una cinquantina di manager con “piccole” missioni chiare e intrecciate tra loro. In poche parole: poca gerarchia, divieto di verticismo (e almeno ufficialmente di cordate), molta autonomia nelle decisioni, controlli dal centro (severi e spesso a sorpresa) a posteriori.
Fca funziona così. Le decisioni strategiche vengono prese da Marchionne che riunisce spesso (di domenica) i 23 manager del Consiglio Generale (Gec). Marchionne fa il punto dei dossier almeno una volta ogni due o tre giorni direttamente con una cinquantina di manager di una sorta di maxi-cerchio magico interplanetario. A ognuno di questi manager – che lavorano moltissimo sul modello del capo notoriamente afflitto da workalcolismo – vengono assegnate più missioni, una principale e un’altra (o più) “secondaria” che però obbliga a interloquire con i suoi colleghi.
Un esempio per tutti: Mike Manley, il capo della Jeep, non è solo il responsabile dello sviluppo planetario del principale marchio del gruppo ma anche il titolare dello sviluppo strategico di Fca in Asia. Così Manley deve occuparsi di marketing ma anche di fabbriche, di concessionari non Jeep, di grattacapi con cinesi e indiani.
Se l’azienda orizzontale, con la sua agilità, ha consentito a Sergio Marchionne di incendiare con poca legna mezza America instaurando rapporti robusti sia con l’amministrazione Obama che con il sindacato Uaw, è pur vero che non mancano i punti deboli. Nel caso Fca l’azienda è Marchionne-dipendente. Ed essendo poi la struttura aziendale esilissima, Fca esprime una comunicazione quasi sempre flebile e lenta, almeno in Italia. Tanto è vero che lo stesso Marchionne la definì “una ciofeca” in una memorabile intervista a La Repubblica. Ne soffre anche, qui e là, l’azione lobbistica e lo spessore del rapporto con i centri decisionali dei Paesi “strategici”.
Resta da illustrare, infine, un punto chiave del meccanismo di funzionamento di Fca: il rapporto fra il capo e i “suoi” manager. Marchionne ha messo a punto un complesso sistema di valutazione che ha illustrato pubblicamente agli stupefatti studenti di una università americana. Il tentativo è quello di selezionare il gruppo dirigente con criteri scientifici e questa è una ulteriore novità per Fiat, dove le interferenze (e le indulgenze) dell’azionista fino a 10 anni fa erano uno dei motori della crisi dell’azienda.
Tuttavia alla fine quello che conta è il suo giudizio. Ma se le defenestrazioni di membri del Gec (e prima di Fiat) ormai non si contano più, è anche vero che nel corso del decennio è andato formandosi un gruppo manageriale ormai collaudato e fra i più cosmopoliti nel mondo dell’automotive. A suo modo una università dell’orizzontalismo che, almeno sul piano della filosofia organizzativa, offre un messaggio importante a noi italiani: non soffre di complessi d’inferiorità rispetto ai tedeschi.
Bah, orizzontalità per me significa proprio tanti manager specializzati in determinate mansioni, e non invece come vuole fare Marchionne: pochi ma oberati di lavoro, come appunto è il caso di Manley.
Le cavolate escon fuori più facilmente da una mente troppo stressata. E nonostante Marchionne abbia competenza zero sulla qualità del prodotto che vuole vendere, si trova comunque nel ruolo di padre padrone che ha sempre l’ultima parola.
Che VW abbia bisogno di un cambiamento culturale che cominci proprio dai vertici è fuori discussione, ma di certo il modello Marchionne non è la soluzione per loro.