L’ultimo Salone è sempre più quello connesso. Ginevra non fa eccezione. Su novità e anteprime avete già letto tutto o lo farete nelle prossime ore. Ciò di cui si dovrebbe discutere è però altro. Privacy e big data è un problema aperto. Lo dimostra il caso della sfida tra Apple e FBI, che riguarda da vicino tutti.
L’iPhone 5 di uno degli autori della strage di San Bernardino in California potrebbe aver “registrato” le fasi dell’evento: l’FBI ha chiesto ad Apple di sbloccare lo smartphone per recuperare tutto il materiale contenuto in esso. Apple si è finora opposta difendendo la privacy dei propri clienti.
Parlando in tv all’Abc, il Ceo Tim Cook ha definito il tentativo di sbloccare l’iPhone incriminato, “l’equivalente in termini di software del cancro”. Il manager ha perfino accusato il presidente Obama di “mancanza di leadership“. Delirio di onnipotenza. Dalla parte della Mela si sono schierati Google, Facebook e Microsoft, pronti a presentare alla magistratura delle amicus brief a sostegno della sua posizione. Hanno già manifestato il proprio dissenso contro la decisione di Cupertino invece Bill Gates, fondatore della stessa Microsoft, e John McAfee, creatore di uno dei programmi antivirus più diffusi al mondo. La contrapposizione è la solita: un centimetro in più di sicurezza vale un centimetro in meno di privacy.
Ma a sorpresa, come riporta qui Usa Today, a fianco diApple si è schierato anche Mark Fields, numero uno di Ford, che ha ricordato come la privacy e le informazioni dei propri clienti siano sacre. A questo punto il dibattito si sposta all’auto 2.0, grande serbatoio di raccolta di dati personali (e non) di chi è al volante. In una situazione simile, cosa farebbero i grandi manager dell’industria automobilistica riuniti a Ginevra? Consegnerebbero i dati all’FBI o li terrebbero secretati?
In mia opinione la risposta alla domanda finale dell’articolo è semplice: certo che consegnerebbero i dati.
Anche Apple ha consegnato i dati dei backup relativi ai backup iCloud del telefono, che però sono stati disattivati due settimane prima della strage. Nulla di strano, Apple è un’azienda americana, ed ha sempre risposto alle subpoena, o citazioni, che le vengono inoltrate dalle varie agenzie governative, se relative a dati in loro possesso. Lo fanno praticamente tutti, dato che la legge è abbastanza chiara e lascia poco spazio ad interpretazioni. Proprio per questo molte aziende del ramo elettronico, come Apple, sviluppano pratiche di sicurezza che rendono l’utente finale unica persona in possesso dei codici per sbloccare i dati: in tal modo “se ne lavano le mani”, potendo fare orecchie da mercante alle citazioni, dato che, anche volendo, non possono far molto per ottenere i dati.
Proprio in virtù di questo Apple si rifiuta di aiutare l’FBI nella creazione di un modo per agevolare lo sblocco il telefono, con il pretesto di non creare un precedente (dato che, come sappiamo, il sistema giudiziario dei paesi anglosassoni si basa sull’applicazione dei precedenti). Personalmente sono dalla parte di coloro che propendono per lo sblocco, sia perché sarebbe un disincentivo verso lo sviluppo di soluzioni più profonde per estrarre dati da questi dispositivi, magari applicate su scala più massiccia, sia perché, pur creando un precedente, esso si applicherebbe solo a questo caso: il metodo di sblocco teorizzato dai federali vale solo per il modello in questione (iPhone 5C), in quanto i modelli successivi hanno già una funzione che complica le cose e rende veramente difficile lo sblocco (a meno che non si possieda l’impronta digitale dell’interessato, quindi, in tal caso, con il cadavere in loro possesso, sarebbe alquanto facile), ed Apple ha già annunciato che sta lavorando per tappare la “falla” che verrebbe usata per lo sblocco richiesto dal bureau nelle prossime versioni del sistema.
Tornando al discorso generale, secondo me sono due gli spunti su cui riflettere: da un lato, in un mondo dove Edward Snowden ha rivelato l’esistenza di programmi come PRISM, quanto sia saggio fidarsi di aziende che hanno dimostrato la propria disponibilità (in alcuni casi forzata, in altri volontaria) a collaborare attivamente (non solo in seguito a citazioni o mandati) con i governi per soluzioni sulla raccolta di dati; dall’altro bisogna domandarsi quanta importanza diamo alla nostra privacy: da anni oramai viviamo in un compromesso. E’ ancora possibile vivere senza lasciare tracce indesiderate, ma, quando aderiamo ad un servizio che prevede la raccolta di dati, dobbiamo essere consci del compromesso che accettiamo. Ogni volta che mandiamo una mail, usiamo una carta di credito, o facciamo una telefonata, nessuno ci obbliga. Siamo noi a farlo. E dobbiamo avere un’idea di quanto ciò comporti. Dal canto mio, considerando i miei dati coinvolti, il compromesso, per ora, lo accetto. Magari in futuro cambierò idea, oppure me la faranno cambiare. Ma una cosa che resterà sempre certa è che quei dati, in modi più o meno legali, se saranno in possesso di qualcuno oltre a me, possono senza troppa difficoltà essere condivisi con gli inquirenti.