In attesa del 28 aprile, quando Volkswagen finalmente terrà la conferenza stampa annuale relativa ai risultati 2015, sono stati resi noti i più importanti dati finanziari. A causa di un maxi accantonamento superiore ai 16 miliardi necessario alle note vicende, la perdita operativa è di 4 miliardi, e quella dopo le tasse è pari a circa 1.4 miliardi di euro. Nonostante le vendite nel 2015 siano leggermente calate (-2%), il fatturato cresce del 5,4% ad oltre 213 miliardi grazie ad un miglioramento della mix di prodotto, al contributo dei servizi finanziari e ad un andamento favorevole dei tassi di cambio.

Al netto dell’accantonamento, il gruppo avrebbe conseguito un profitto operativo di 12,8 miliardi (con un margine del 6%) in linea con l’anno precedente (quando l’accantonamento per fare fronte al problema delle emissioni era stato di 6.7 miliardi). Immaginiamo che la struttura dei conti non sia molto diversa dal 2014, con le joint ventures cinesi e i marchi premium Porsche e Audi che continuano a fare la differenza.

Nell’ambito della divisione auto, il flusso di cassa generato dalle attività operative ha sfiorato i 24 miliardi (+10,2%), mentre il flusso di cassa netto, che include la vendita delle azioni Suzuki (2.8 miliardi), è pari ad 8.9 miliardi di euro.

É evidente dunque l’intenzione, da parte del management, di far arrivare al mercato il messaggio che Volkswagen è più forte che mai, ed è in grado di affrontare la crisi più grave della sua storia: “We have the firm intention and the means to handle the difficult situation we are in using our own resources“, ha dichiarato Matthias Müller, CEO del gruppo Volkswagen.

E in effetti, a parte Toyota, nessun altro gruppo automobilistico può vantare spalle così robuste. Di conseguenza si potrebbe pensare, come fanno alcuni analisti, che sia solo una questione di tempo (“No question, Volkswagen will bounce back”), che dopo aver raggiunto un accordo con le autorità competenti negli Stati Uniti (10 miliardi di dollari che ancora non si capisce come verranno erogati), Volkswagen metterà le cose a posto in Europa, dove la campagna di richiamo sta procedendo a rilento, e nelle altre parti del mondo, e che, anche se ci vorranno anni, questo incubo finirà.

Ma non è detto che vada così, a meno che non venga affrontato e risolto il problema che, in ultima analisi, ha portato a questa situazione, vale a dire la “governance” del gruppo di Wolfsburg.

Perché alla fine ci vorranno soldi, tanti soldi, per venirne fuori. Le risorse generate dal core business non basteranno, e qualcuno dovrà pur decidere dove e come trovarle.

La conflittualità tra i vari stakeholders, azionisti, politici, sindacati e management, ha raggiunto un livello senza precedenti. Dopo aver perso nell’ultimo anno più di sei miliardi a causa del crollo del valore delle azioni, la Qatar Holding, terzo azionista di Volkswagen con una quota del 16,99%, spinge per una ristrutturazione ed una diminuzione del potere dei sindacati.

Non è un mistero che da mesi il numero uno del marchio VW, Herbert Diess, e il capo del consiglio di sorveglianza Bernd Osterloh stiano litigando sul piano proposto da Diess che prevede migliaia di esuberi e la chiusura di un paio di fabbriche. Osterloh, che rappresenta i sindacati, è alleato con il secondo maggior azionista, il Land della Bassa Sassonia, ed insieme contano dodici voti nel board contro gli otto degli altri azionisti (oltre agli arabi, la famiglia Porsche/Piech) che sposano la linea dura di Diess.

Il consiglio di sorveglianza è inoltre riuscito ad ottenere il congelamento del bonus destinati al management per il 2015, dopo averne chiesto una drastica riduzione. Tenuto conto che gli executive del gruppo sono notoriamente tra i più pagati del settore, e della situazione in cui si trova l’azienda, difficile non essere d’accordo.

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