Così poco? mi fa subito un amico, leggendo che alla Daimler e alla Porsche nell’importante Land del Baden-Württemberg, i dipendenti potranno chiedere di lavorare 28 ore alla settimana – invece che 35 – per un tempo che va dai sei mesi ai due anni. L’accordo è stato sottoscritto dal potente sindacato dei metalmeccanici IG Metall e dalle aziende di settore per 900.000 persone e verrà esteso in Germania ad altri 3,5 milioni di lavoratori. Alla Opel in Spagna, per esempio, la direzione presa dai nuovi proprietari francesi di Psa è stata un’altra.
Per completezza, alla Daimler come altrove i dipendenti (non più del 10%) che sceglieranno di ridurre l’orario di lavoro per assistere i figli piccoli o i genitori anziani o familiari in malattia avranno un “bonus in tempo”, 8 giorni di ferie a partire dal 2019, più un aumento del 4,3 per cento dello stipendio dal prossimo aprile come per tutti gli altri. In cambio, le aziende hanno ottenuto la possibilità di estendere la settimana lavorativa sempre su base volontaria da 35 a 40 ore. E rispondere così a esigenze produttive contingenti.
Sembran poche 28 ore, ma il principio passato alla Daimler è la flessibilità al contrario. Nel senso che la flessibilità è stato finora imposta nel mondo soltanto ai lavoratori, pena spesso la perdita del posto; ora è l’azienda che accetta il principio di fronte alle mutate esigenze della società. Era ora.
Società dove un uomo o una donna di 50 anni, per fare un esempio, devono a volte badare a figli ancora piccoli e contemporaneamente a genitori molto anziani sperando di essere in ottima salute. Una rivoluzione sociale dai risvolti enormi. Da connettere anche ai nuovi modi di lavorare al tempo della digitalizzazione, per i quali diventano (quasi sempre) più utili nomadi digitali che culi di pietra, tanto per inquadrare nuove e vecchie categorie.
Questa storia mi fa venire in mente la legge firmata a Parigi da Martin Aubry negli anni ’90 sulle 35 ore, intorno alla quale si è dibattuto per decenni dentro e fuori la Francia. Quella legge che Emmanuel Macron oggi disprezza, portò comunque tra il 1998 e il 2002 a circa 300-350mila nuovi posti di lavoro.
Se 28 ore vi sembran poche, dico che lavorare meno può significare anche produrre di più. E che redistribuire il lavoro allarga la platea dei beneficiari. E che preoccuparsi del bene dei dipendenti – se fatto in modo non paternalistico come indica l’accordo firmato da IG Metall – può essere un grande risultato per l’azienda. In Daimler, che oggi per altro eccelle visti i conti, come altrove.
Interessante articolo ma mi permetto alcune considerazioni professionali (non sul tema dell’auto in senso stretto, per cui “non sum dignus”, ma sul tema dell’orario di lavoro, su cui ho qualche praticaccia).
Credo che dare conclusioni generali di tipo “sociologico” su questo specifico aspetto della contrattazione collettiva tedesca non sia del tutto corretto. La modifica del numero delle ore lavorate settimanali, di per se’ non comporta “in re ipsa” un aumento della produttivita’ o un incremento automatico dell’occupazione. La verita’ a mio parere e’ che in questo momento storico della Germania con una disoccupazione virtualmente pari a zero (il tasso infatti e’ quello considerato fisiologico, cioe’ incomprimibile, di circa il 5%) ed una produttivita’ assolutamente soddisfacente , con dei livelli retributivi medi assai elevati (comparati anche al resto dell’Europa), sussistono le condizioni per “sperimentare ” per un tempo limitato nella vita di una percentuale dei lavoratori una diminuzione delle ore lavorate. Ma questi presupposti non sono esportabili o ripetibili in modo automatico in altri Paesi o in generale nelle economie avanzate con piu’ problemi, anzi corrono il rischio di deprimere la produttivita’ e l’efficienza di contesti industriali ed organizzativi meno evoluti o con stringenti questioni di tenuta occupazionale e di concorrenza sui mercati interni ed internazionali. Il che vuol forse dire che i problemi sociali e familiari citati nell’articolo non esistono? Certamente si’, esistono, ma le ricette e le risposte non possono essere qui quelle tedesche basate sull’orario di lavoro ma su interventi in tema di politica familiare e sociale collettiva (servizi, welfare, etc..) senza costringere le aziende a rincorrere un approccio “teutonico”, che non puo’ essere replicata senza contraccolpi evidentemente negativi. Peraltro gia’ oggi sociologi italiani anche famosi teorizzano la fine del lavoro grazie alla tecnologia ed alla intelligenza artificiale, ma in questo caso a mio parere il rischio che si corre invece e’ che rincorrere in Italia o altrove la provocazione tedesca in tema di orario, significhi deprimere ancor di piu’ la nostra produttivita’, finire fuori mercato e in ultima analisi ridurre i posti di lavoro e l’occupazione. Come giustamente ricordato nell’articolo guardando a l’approccio seguito da Opel. E’ da notare che persino il nostro sindacato (almeno quello piu’ responsabile) stia trattando con le pinze e senza eccessivi trionfalismi l’esperienza tedesca. Ma il discorso qui sarebbe lungo e ci porterebbe lontano dai temi dell’auto ….