A 82 anni e alla vigilia di Francoforte, il suo salone di casa, se ne è andato all’improvviso Ferdinand Piëch, ex padre padrone della Volkswagen, “uno degli ultimi che di auto se ne intendeva sul serio”, come ha scritto in un tweet l’amico Riccardo Ruggeri. Di Piëch, austriaco, avevo scritto un ritratto in un libro (più o meno tre lustri fa) che mi torna utile per dire un paio di cose sull’attualità automobilistica tedesca innanzitutto.

Piëch era un padre padrone nel gruppo Volkswagen, non soltanto un top manager dal pugno di ferro tra il 1993 e il 2002 quando ha governato direttamente, e dopo. Era anche azionista di controllo di Porsche e a seguire del colosso di Wolfsburg attraverso una operazione di governance che allora aveva lasciato interdetti molti analisti.

Di sicuro, il controllo della “sua” Porsche era considerato così opaco che il titolo era stato costretto a tenersi alla larga da Wall Street. Nel ritratto di Piëch, ritrovo quanto scrissero al board Volkswagen – a cavallo degli anni ’90 – un pugno di suoi manager (presumo disperati): “Siamo nelle mani di uno psicopatico”.

Oggi, un uomo solo al comando come Piëch è impensabile. Né al volante di un gruppo tedesco, né forse nel mondo, essendo entrati in una nuova era dopo anche la fine improvvisa di Marchionne e Ghosn, due che per livello di potere interno assomigliavano un po’ a Piëch.

Se il Dieselgate scoppiato nel settembre del 2015 proprio in pieno salone di Francoforte ha scardinato segreti e bugie e imposto quasi una porta girevole ai vertici del gruppo Volkswagen, in Bmw il nuovo ceo che si presenta adesso al Salone sostituisce un predecessore che stava lì da soli quattro anni e fatto scendere in corsa dagli azionisti. Mentre è da decifrare il futuro del nuovo ceo di Daimler, svedese e non tedesco per la prima volta nella storia di Stoccarda, anche se con un passato professionale che lo fa sembrare quantomeno il più tedesco di tutti gli svedesi del mondo.

Un nuovo Piëch mi appare impensabile anche perché i bilanciamenti di potere all’interno di strutture complesse come le multinazionali dell’auto cambiano. E nemmeno le crisi cicliche sembrano quelle di una volta: una Germania che rallenta vistosamente crescita, produzione industriale ed export soprattutto per colpa di una guerra dei dazi insensata e malgestita dalla Casa Bianca, non me la ricordo.

Bisognerebbe chiedere al fantasma di Piëch, ma non è più vero nemmeno che non è mai troppo tardi.

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