Lungotevere, sabato 7 marzo, interno giorno di una pista ciclabile. C’è una primavera anticipata come al solito a Roma – siamo al disastro climatico, ha ragione Greta – e c’è il coronavirus. Persistente scarso traffico automobilistico, meno persone in giro e nei negozi. C’è emergenza, non panico. Sorprendente in una città dove i bus pubblici vanno a fuoco e l’immondizia imperversa per colpa di tutti. Roba da far spavento anche al coronavirus.

Inforco la bicicletta e il mondo si rovescia. Sulla pista ciclabile c’è un traffico mai visto. Bici di tutte le taglie mischiate a gente che corre o trotta, immagini di una nuova convivenza. Bella, se incroci pure una carrozzina gemellare con i genitori appesi.

In bicicletta bisogna stare più attenti del solito: mi viene in mente quello scenario di domani quando per strada ci saranno le auto ancora guidate da noi umani e quelle guidate dai robot. Sarà un’altra nuova convivenza.

A Roma oggi il coronavirus non va in bicicletta. Annullata la maratona, annullata la gara di Formula E, calcio a porte chiuse, e meno male che la mostra su Raffaello a 500 anni dalla scomparsa ha aperto lo stesso alle Scuderie del Quirinale. “E non fu mai passato il tempo che passò”, come cantava Francesco De Gregori pensando a suo padre. Segni, ciò di cui abbiamo bisogno in assenza di certezze.

Andiamo in bicicletta, il coronavirus non ci va. Nessuna leggerezza: Umberto Eco diceva che per sopravvivere bisogna raccontare storie. Ecco.

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