“Uber, no?”. Costa Mesa. Un piccolo centro a un’ora a sud di Los Angeles. Un lungo viale su cui affacciano decine di Pizza Hut, Taco Bell e CVS Pharmacy. Lascio un’auto noleggiata e ho bisogno di un taxi. Quelli del rent a car mi rispondono: “Ma non hai l’app di Uber?” Incredibile come viaggiano veloci le innovazioni. E’ vero, siamo in California, ma in una cittadina (se così si può chiamare) mai mi sarei aspettato di trovare un’auto di Uber.

Per la cronaca, Uber è una piattaforma che mette a disposizione “black cab” oppure anche privati cittadini in grado di offrire un passaggio a pagamento a chi ne ha bisogno.

Raccontavo l’episodio a cena a un collega di San Francisco: “Qui è normale, il servizio taxi è ormai morto. Lo chiamano solo persone di una certa età oppure quando non c’è un’auto Uber nelle vicinanze”. Poi però andando nel dettaglio, mi racconta della spregiudicatezza di Uber e delle polemiche su una guerra ai giornailsti che il mio socio ha raccontato bene qui su pagina99.

Il collega mi dice che se Uber non cambia è destinato a chiudere anche lui con la stessa velocità con cui è arrivato al successo: convenienza a parte, qui in molti iniziano ad avere, ad esempio, i dubbi sull’assicurazione. Se un privato mi offre a pagamento un passaggio e abbiamo un incidente, l’assicurazione copre gli eventuali danni? Quanti privati dichiarano all’assicurazione di far un servizio per Uber e pagano l’integrazione necessaria alla copertura? Chi mi garantisce l’affidabilità di chi è al volante? E se è ubriaco? O fa uso di stupefacenti? E poi, come avevo scritto anche io in questo post: la concorrenza, anche in Paese come gli Stati Uniti, ai taxi è spesso sleale. Perché Uber può modificare i prezzi in funzione della domanda e i tassisti no?

Nel dubbio, il mio collega a San Francisco, nonostante un profilo non proprio pianeggiante, usa una bici e io a Costa Mesa ho preso un taxi.

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