Un’auto robot ha investito e ucciso una donna in Arizona. Al volante c’era un software, mentre il tecnico umano a bordo non ha evidentemente fatto in tempo a intervenire per evitare l’impatto. Per il “selfdriving” non è il primo incidente, è il più grave. Parlando con Bloomberg nello stesso giorno, un ex ingegnere che ha sviluppato sistemi di guida autonoma si è lasciato scappare: finalmente è accaduto.
Il robot al posto dell’essere umano al volante, che non è e non sarà un umanoide come letteratura e cinema ci hanno abituato a immaginare nel secolo scorso, servirà a salvare vite umane. L’assunto è che un computer sbagli molto meno di una persona. Negli Stati Uniti, ogni anno muoiono 6.000 pedoni in incidenti stradali.
L’auto robot che ha ucciso la donna è una Volvo XC90 gestita da Uber, la società californiana di trasporti privati. Le due aziende lavorano a un programma di sperimentazione autorizzata dallo stato americano, ora sospesa. Vanno avanti gli altri: Waymo di Google (anche con le Chrysler Pacifica di Fca), Gm, Toyota, Hyundai, Volkswagen, Bmw, Psa, Ford, Mercedes, Honda, Nissan). In America e nel resto del pianeta.
“Finalmente è accaduto” è un incubo che tutti gli ingegneri del mondo dovrebbero tenersi dentro anche fino a svenire. Cinismo da buttar via. Cinismo da Silicon Valley, dove le zone grigie – vedi il concomitante caso Facebook – sono ben altre rispetto alla messa a punto di un algoritmo.
Ma non sparate sul robot. Stephen Hawking se ne è andato pochi giorni fa, teniamo lui a mente pensando alla guida autonoma e al futuro: “Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza”.