Uber, l’app californiana di taxi privati nata nel 2009, ha subito la prima sconfitta della sua breve ma intensa storia. In Cina è stata costretta a cedere la sua attività al gigante locale Didi Chuxing. Dopo due anni e mezzo di battaglie impari, perché lì non aveva di fronte i tassisti del mondo occidentale che protestano ma il capitalismo cinese, sintesi unica e perversa di una economia di mercato dominata dallo stato-partito.

Il caso Uber, in un linguaggio da propaganda d’altri tempi, si potrebbe raccontare anche così: i compagni cinesi, compagni che sbagliano, hanno dato una sberla al liberismo yankee più arrogante che c’è, più di quello dei banchieri di Wall Street pre-Lehman Brothers. Usando pure una buona dose di protezionismo, che per altro sta tornando di moda ovunque, America compresa se è vero che c’è tanta gente disposta a votare per Donald Trump anche per questo.

Torno serio. Sulla vicenda di Uber in Cina ecco alcuni numeri e poi ognuno decida la sua lettura.

1) Giovedì scorso, il governo cinese legalizza in modo definitivo i servizi di prenotazione taxi privati via app, fin qui operanti in una cosiddetta “zona grigia” nella quale sia Uber che Didi e altri lavoravano comunque da anni. Un segnale che nemmeno i comunisti cinesi possono nulla per arginare la crescita di questo nuovo sistema di mobilità, una lezione da imparare a memoria perché ha valenza globale.

2) Lunedì mattina, in un blog Uber annuncia di cedere a Didi Chuxing la sua attività in Cina, che in termini operativi vale la presenza in 60 città, 40 milioni di corse a settimana (il suo numero maggiore al mondo, ha appena raggiunto i 100 milioni a New York in quattro anni)) ma perdite per un miliardo di dollari all’anno.

3) Didi Chuxing, che nel suo paese copre l’87% del mercato in 400 città e con 100 milioni di corse a settimana,  per effetto dell’accordo investe un miliardo su Uber in California, concede all’ex rivale un posto nel consiglio di amministrazione e una quota di un quinto del valore complessivo del nuovo colosso cinese, valutato intorno alla cifra stratosferica di 35 miliardi (7 miliardi il valore confluito di Uber China, dunque).

Uber ha perso in Cina la sua battaglia più grande. Ma quanti vorrebbero perdere così, senza dimenticare gli schiaffi del soldato (cinese) portati a casa negli anni scorsi da Google, Amazon, Twitter & Co?

Commenti

    […] Elon Musk stesso si è espresso recentemente a riguardo, sostenendo che il software è uno degli ultimi ostacoli sul cammino verso un futuro senza pilota. Ed è vero: i sensori che abbiamo, frutto di oramai decenni di perfezionamento, seppur migliorabili, sono accettabili per lo scopo. Ma la priorità, per poterli sfruttare a pieno, è creare un programma che porti un computer a pensare come un autista: quella è la parte difficile. Insegnare ad una macchina a pensare. Ci stiamo arrivando, ma i moderni approcci (reti neurali artificiali, ad esempio) richiedono ancora molte risorse, più di quelle che il bagagliaio di un’auto può contenere. E non è nemmeno il caso di adottare una soluzione di teleguida: immaginate cosa potrebbe succedere se, per un qualsiasi imprevisto, venisse a mancare il collegamento, ad esempio, mentre si sfreccia un autostrada. […]

    […] Saltabecco e leggo che Uber ha perso 1,27 miliardi di dollari nel primo semestre dell’anno. Ne vale o ne varrebbe 62,5 o addirittura 69, quindi non affonderà. Ha perso un miliardo all’anno in Cina, secondo il suo boss Travis Kalanick, “profittevoli negli Usa” sebbene Bloomberg sostenga che ci sia stato un rosso di 100 milioni nel secondo trimestre. Uber (come Gett da Volkswagen e Lyft da Gm) è ricercata dai costruttori di auto per sviluppare insieme sistemi di guida autonoma, base del recente accordo con Volvo. Ma nulla è in discesa, tanto è vero che qualche settimana fa ha dovuto mollare in Cina. […]

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