Ormai è chiaro: quella di Stellantis per l’Italia sarà una storia ricca di sorprese, belle o amare che siano. Carlos Tavares, il ceo che guida il gigante nato dalla fusione fra Fca e Psa, ha mandato un segnale potente, veloce e del tutto imprevisto al sistema industriale e politico italiano annunciando la trasformazione in gigafactory dello stabilimento di motori classici di Termoli, in Molise.
Una novità assoluta e un grandissimo messaggio per l’intero Mezzogiorno. Che viene proiettato in prima linea in una delle sfide tecnologiche e industriali di primaria grandezza a livello mondiale. E’ la seconda volta che Termoli fa da apripista: negli anni ’80 nacque come frontiera della robotizzazione europea per la produzione di un motore eccellente nel rapporto qualità/prezzo come il Fire, dismesso solo l’anno scorso.
Sulla gigafactory tutti i pronostici erano per Mirafiori. Con il timore che in realtà Tavares avrebbe scelto la Spagna per la terza fabbrica di batterie europea di Stellantis dopo quella francese e quella tedesca per il fondatissimo motivo che nella penisola iberica Stellantis nel 2020 ha prodotto oltre un milione di veicoli (più della Francia) contro i 700.000 assemblati in Italia.
E invece ha vinto l’Italia, si dice con 600 milioni di contributi pubblici. Ma così fan tutti. Termoli dunque, con il suo probabile miliardo di euro di investimenti, è un annuncio strategico per il futuro italiano. Un paese che esce dalla pandemia con il 160% di debito pubblico rispetto al Pil ha bisogno come il pane di leve produttive che non solo lo tengano in piedi ma che colleghino le sue filiere industriali a più alto valore aggiunto alla più avanzata frontiera tecnologica globale. Dato non secondario, la trasformazione elettrica di Termoli assicura il futuro alle altre due fabbriche di motori italiane: Pratola Serra, vicino Avellino, e Cento in provincia di Ferrara.
L’annuncio arriva dopo l’accordo sindacale per Melfi, la fabbrica gioiello di Sergio Marchionne con i suoi 400.000 pezzi annui e il mezzo punto di Pil assicurato all’Italia con l’export di 100.000 Jeep Renegade verso gli Usa prima della pandemia. Gioiello che pure a sorpresa sembrava essere stato messo in discussione dall’arrivo in Italia dei gestori francesi capitanati dall’ingegnere ex Psa Maxime Picat. In effetti a settembre Melfi perderà una delle sue linee produttive in nome della riduzione dei costi (ma anche del personale, che sarà tagliato di 300 unità con un maxi incentivo all’esodo) in attesa di iniziare a produrre nel 2024 quattro nuovi modelli del gruppo.
Da questi due segnali si capisce che il comparto automotive italiano, con i suoi 50.000 dipendenti diretti ex Fca e gli altri 200.000 della componentistica, è alla vigilia di una trasformazione epocale che probabilmente farà impallidire il salto di qualità impresso da Sergio Marchionne, quando abbandonò le utilitarie per tentare la strada della produzione premium e semi-premium.
L’antipasto rappresentato dalla doppia rivoluzione di Termoli e di Melfi ma anche la delusione di Torino che attendeva la conferma di essere tornata fra le capitali dell’auto fa capire che il piano industriale che Tavares presenterà alla fine dell’anno potrebbe essere un contenitore di novità epocali, come l’industria italiana non vede da decenni.
Tavares e la sua Stellantis mostrano una forza e una velocità cui l’Italia non è abituata. I pantagruelici programmi sull’elettrico mostrati l’8 luglio, l’annuncio di 30 miliardi di investimenti nel mondo nei prossimi 5 anni solo su questo comparto, la razionalità delle nuove quattro piattaforme che contribuiranno ad assicurare autonomia fra i 500 e gli 800 chilometri alle prossime vetture full electric, l’attenzione al software, la cura dei marchi, la presenza non secondaria di donne manager, ha fatto filtrare la sensazione di una solidità e una capacità di visione che nel mondo dell’auto finora erano monopolizzate da tedeschi e giapponesi. E Tavares ha capitalizzato tutto questo con una sola frase: vedrete che Stellantis non è un “one man show”.
L’industria italiana dell’auto da sei mesi è uno spicchio di questa potenza e non a caso nella lunga presentazione dell’8 luglio si è sentito anche parlare italiano, si è visto il Lingotto e non solo Parigi o Detroit e nell’ultima parte dello show Tavares si è fatto accompagnare anche dall’inglese (con moglie italiana e residenza a Torino) Richard Palmer, ex capo della finanza di Fca che ora riveste lo stesso ruolo in Stellantis.
E tuttavia, nonostante l’ottimo annuncio di Termoli, nella lunga sfilata di manager dell’Electrification day di Stellantis si notava che non c’era neanche un “capo” italiano. Fca – se vogliamo ragionare ancora di Stellantis per aree d’influenza – è stata rappresentata da dirigenti francesi, tedeschi, inglesi, americani ma neanche da un ingegnere o da una ingegnera italiani. Non è una sorpresa. La lunghissima crisi della Fiat, che tutt’ora perde denaro nelle rete italiana, ha avuto dei riflessi anche sulla formazione e lo spessore dei gruppi dirigenti.
E allora Termoli fa ben sperare, ma resta in salita la strada per l’auto italiana o, se volete, per gli italiani dell’auto. Scalare Stellantis non sarà semplice per le donne e gli uomini che lavorano in quella fetta di industria italiana che una volta si chiamava Fiat.