Il premier giapponese, Shinzo Abe, ha incontrato a Washington in visita ufficiale Donald Trump. Come è noto, nelle ultime settimane il nuovo presidente americano aveva rivolto i suoi strali sia nei confronti del governo giapponese, accusandolo di svalutare intenzionalmente lo yen per spingere l’export (il surplus commerciale nei confronti degli Usa nel 2016 ha sfiorato i 70 miliardi di dollari), sia di Toyota, minacciandola di introdurre dazi qualora confermasse l’intenzione di costruire una nuova fabbrica in Messico (“NO WAY! Build plant in U.S. or pay big border tax“).

Prima di partire, pare che Abe si sia consultato con Akio Toyoda, forse per convincerlo a rinunciare all’investimento da circa un miliardo di dollari nello stato del Guanajuato. Il ceo del colosso giapponese deve avergli detto che ad oggi appena il 5% delle Toyota vendute negli Usa vengono prodotte in Messico. E che è diventato praticamente impossibile, a causa del calo della domanda, produrre autovetture negli Stati Uniti con un margine di profitto e che Toyota è presente negli Stati Uniti da 60 anni ed impiega direttamente nelle fabbriche già esistenti oltre 40mila operai.

Toyoda deve avere ricordato ad Abe anche che, nell’anno finanziario in corso (per i giapponesi finisce a marzo 2017), l’apprezzamento dello yen nei confronti delle valute straniere, prima fra tutte il dollaro (oltre 10 punti da marzo a novembre 2016), ha finora contribuito negativamente all’utile operativo per 770 trilioni, ovvero più di 6 miliardi di euro.

Un rebus non facile da risolvere per Abe, che, se assecondasse il desiderio di Trump di avere un dollaro non eccessivamente forte (compatibile con l’obiettivo primario di  riportare produzione e posti di lavoro negli Stati Uniti), rischierebbe di scontentare Toyota, uno dei suoi più importanti stakeholder. Quindi, se da una parte avrà proposte concrete da sottoporre a Trump per spingere l’economia e l’occupazione nel territorio americano, dall’altra si affannerà a spiegare a Trump che già oggi non sono previste tariffe per i veicoli importati in Giappone dagli Stati Uniti (al contrario gli Usa  impongono una tariffa del 2.5% per le vetture e la “chicken tax” – che risale al 1963 – del 25% sui light truck), e che la politica monetaria giapponese è finalizzata a combattere la deflazione e non a indebolire lo yen.

La situazione è talmente intricata, a causa della contraddizione tra le politiche volute da Trump il cui effetto iniziale tende a essere quello di rafforzare il dollaro, e la sua volontà di indebolirlo, che alcuni economisti e addetti ai lavori sostengono che dietro all’incontro tra Trump e Abe si celi quella che si preannuncia come una vera e propria nuova guerra delle valute, il cui esito è difficile da prevedere.

Esattamente una settimana fa, con un “understatement” tipicamente giapponese e mentre annunciava i risultati finanziari di Toyota nei primi nove mesi, il managing officer Tetsuya Otake ha dichiarato: “As of today, the impact of the Trump Administration’s policies is very difficult to incorporate into our strategic planning”.

In ogni caso, gli analisti prevedono a breve termine per lo yen, dopo i minimi a 100 (yen per dollaro) di qualche mese fa, una tendenza ad indebolirsi, diciamo verso i 120, che sarebbe una gran bella notizia per Otake-san, il quale per la sua previsione a fine anno ha comunque ipotizzato – non si sa mai – un tasso prudenziale a 107.

Per quanto siano in calo rispetto al 2016, i numeri di Toyota rimangono un’utopia per tutti gli altri costruttori: tradotti in euro (vi risparmio il calcolo in trilioni di yen), parliamo di circa 220 miliardi di fatturato con un utile operativo superiore ai 15 miliardi ed un margine che sfiora il 7%.

Lascia un commento