Mentre i “working team” dei gruppi Psa e Fca stanno lavorando alle possibili sinergie in vista della fusione prevista entro un anno, in molti si domandano quali saranno i marchi che rimarranno, e quali saranno abbandonati.

Carlos Tavares, ceo di Psa e futuro ceo del nuovo gruppo dopo la fusione, ha di recente affermato che non ci sono piani a breve di tagliare alcun marchio dal portafoglio di Psa e Fiat Chrysler (“What we can see is that we’ll have a fantastic brand portfolio that will cover the market. After the merger closes, we will decide what is the best way to go to market, to map the market, to cover the market, to reduce cannibalization, if there is any”) essendo pienamente consapevole di quelle che sarebbero le conseguenze in termini occupazionali.

Tuttavia, è irrealistico pensare che, una volta completata l’analisi di mercato, tutti i marchi attualmente esistenti sopravviveranno, e che qualcuno non ci stia già lavorando adesso, tenuto conto che i piani di prodotto richiedono anni di sviluppo. Quel che è certo, investire su 14 marchi per mantenerli competitivi a tutti i livelli, dal prodotto alla distribuzione, è virtualmente una missione impossibile. Come ha dimostrato l’esperienza di Ford negli scorsi decenni, quando, oltre al marchio omonimo, controllava Mazda, Land Rover, Volvo, Jaguar e Aston Martin.

Vero è che Tavares ci ha abituato alle missioni impossibili (non ultima il prodigioso recupero di Opel, che nel 2019 ha conseguito un profitto a livello operativo di oltre un miliardo di euro), e che Volkswagen di marchi in portafoglio ne ha ben 12, anche se solo 5 di essi (Volkswagen, Audi, Seat, Skoda, Porsche) sono marchi di volume, 2 (Scania e Man) competono nel mercato dei veicoli commerciali pesanti, ed 1 in quello delle moto (Ducati).

Volendo fare il gioco della torre, cominciamo con elencare quelli che senz’altro saranno mantenuti. Primo tra tutti Jeep, che tra Europa e Stati Uniti vende più di un milione di veicoli e rappresenta il maggior contribuente in termini di profitti. Si porta dietro Ram con oltre 700mila unità e Dodge con più di 400mila.

Seguono ovviamente Peugeot, nonostante le vicissitudini in Cina, ed Opel, che dopo essere rientrata in Russia ha annunciato di voler tornare anche in Giappone, anch’essi con volumi di vendita intorno ad un milione di unità.

Vengono poi Fiat e Citroën, due marchi con un posizionamento simile, con un numero di autovetture immatricolate in Europa superiori alle 600mila unità ed una quota di mercato identica. Più della metà dei volumi Fiat è rappresentato dai tre modelli della gamma 500, mentre le vendite del marchio DS, dopo cinque anni consecutivi di declino, lo scorso anno sono cresciute oltre le 60mila unità, al punto che la nuova responsabile Béatrice Foucher si è affrettata a dichiarare che “If one looks at what DS did in 2019, obviously the future of DS is not an issue”. Certo è che DS è una creatura di Tavares, il quale considera la Francia la sua patria adottiva e difficilmente rinuncerà ad un marchio simbolico del lusso francese in cui ha finora investito parecchi soldi.

Va inoltre ricordato che i marchi Fiat, Opel, Peugeot e Citroën includono i veicoli commerciali leggeri, con una gamma di modelli ampiamente sovrapposta (alcuni prodotti in joint venture) che vale oltre un terzo del mercato, una quota che ha attirato l’attenzione da parte dell’autorità antitrust dopo l’annuncio della fusione.

Appare segnato il destino di Lancia, che di fatto è un marchio mono modello, la Y (circa 60 mila immatricolazioni nel 2019, tutte in Italia), prodotta nella stessa fabbrica della 500 in Polonia dove i margini sono accettabili ma non c’è cassa integrazione. Si vocifera che a Tichy potrebbe tornare la Panda e che la Y uscirà di produzione l’anno prossimo, ma Tavares è un ex rally driver cresciuto con il mito di Lancia e qualcuno (non molti, per la verità) spera che tiri fuori il coniglio dal cappello risparmiando al marchio torinese una fine ingloriosa.

Così come in bilico è il marchio Chrysler, che paga il calo negli Usa di berline e monovolumi a favore di suv e pick-up: nel 2019, nonostante incentivi pesanti (oltre 5.000 dollari a vettura), ha venduto meno di 130mila unità, un quarto di volumi in meno rispetto al 2018 in un mercato sostanzialmente stabile.

Rimangono in ballo due marchi storici, Alfa Romeo e Maserati, ambedue in caduta libera, la cui brand equity al di fuori dell’Italia in prospettiva rimane tutta da definire. È probabile che con la fusione il cordone ombelicale che ancora lega Maserati a Ferrari venga definitivamente reciso, con un certo sollievo da parte degli azionisti Ferrari che non vedono di buon occhio le frequenti “invasioni di campo” su motori e design.

Cosa fare di Alfa Romeo rappresenta probabilmente la decisione più difficile per Tavares. Entro il 2022, oltre a Giulia e Stelvio la gamma dovrebbe prevedere anche un suv compatto, il Tonale, ed uno piccolo. Ma rispetto ai marchi tedeschi, che hanno una trentina di modelli e vendono circa due milioni di autovetture l’anno, non c’è partita. Ne sanno qualcosa Jaguar e Lexus che da anni cercano, con alterne fortune, uno spazio nel segmento premium. D’altra parte, né DS né Jeep sono marchi premium, mentre il marchio Alfa Romeo, una volta ”reinvented” e dotato di una gamma competitiva e di un’adeguata rete distributiva, in teoria potrebbe avere una chance in più contro Bmw ed Audi.

Infine, uno dei parametri chiave su cui si baseranno le decisioni di Tavares sarà la Cina. Nel 2019 le vendite del gruppo Psa in Cina sono crollate (-55%) a 117mila unità, nonostante una capacità produttiva locale di oltre un milione, mentre Fca, tramite la joint venture con Gac, ha venduto meno di 100mila unità, con una quota di mercato autovetture trascurabile. Problemoni.

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