In borsa prevedono una fase di volatilità elevata per il titolo Ferrari. Nell’ultimo mese, a Piazza Affari l’azione ha perso il 6,53%, una discesa che grosso modo coincide con la prima indiscrezione sulla cattiva salute di Marchionne (5 luglio) fino alla sua scomparsa (25 luglio).

Peggio il titolo ha fatto con il nuovo amministratore delegato nominato in corsa da John Elkann, Louis Camilleri, che mercoledì scorso – presentando i conti coi fiocchi del secondo trimestre della Ferrari – ha detto agli analisti che i target 2022 di profitti fissati da Marchionne erano“aspirational”, versione in inglese riportate dalle agenzie internazionali, aggettivo molto usato nel marketing. Possiamo tradurre liberamente in “ambiziosi”, il risultato non cambia: titolo a picco fino al 12%, poi sotto dell’8,3% a fine seduta. Un bagno di sangue.

I mercati, già scossi dalla fine improvvisa di Marchionne che aveva posticipato almeno al 2024 la sua permanenza al volante della Ferrari, hanno tradotto le parole di Camilleri come una pesante incertezza della nuova governance. Che poi potrebbe essere lo stesso interrogativo sul futuro prossimo di Fiat Chrysler e del nuovo ceo Mike Manley: quando si governa come un Papa – e Marchionne è stato per peso specifico l’equivalente di Giovanni Paolo II per il Vaticano sia in Fca che in Ferrari – non è che se ne fa un altro e tutto è uguale a prima.

Ci vogliono tempo, fatti, autorevolezza. Camilleri ha promesso che spiegherà il prossimo 17 settembre come la Ferrari intende raggiungere i target 2022. Sono sicuro che per quella data avrà imparato a memoria anche il dizionario dei sinonimi e contrari da utilizzare di fronte agli analisti.

Ma la cosa che più mi colpisce di questa vicenda Ferrari è un’altra. Negli ultimi anni sono circolate voci insistenti su forti dissapori tra Marchionne e John Elkann, presidente di Fiat Chrysler. E l’origine, sempre secondo queste voci, sarebbe stata proprio la governance di Maranello.

Alla fine dell’estate del 2014, Marchionne caccia Luca Cordero di Montezemolo e si insedia al volante della Rossa, stoppando le comprensibili ambizioni di John (ma anche del fratello Lapo) per la presidenza della Ferrari. Gli Elkann-Agnelli detengono il 41% di Maranello, il 10% è saldamente nelle mani di Piero Ferrari, eppure è Marchionne a diventare allora presidente e insieme amministratore delegato..

Non sarebbe stato il primo degli ad uscenti della storia Fiat a desiderare di tenersi in qualche modo la Rossa come buona uscita. E solo ora John ce l’ha fatta a essere il presidente, riportando la Ferrari a casa. Chissà se Camilleri la definirebbe una aspirazione riuscita.

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