Partiamo dalla notizia: nei giorni scorsi si è scioperato nello stabilimento Stellantis di Pomigliano, quello dove esce una Panda ogni 55 secondi e che anni fa fu al centro di un furibondo scontro fra l’allora amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, e la Fiom. La protesta, rilanciata da Bloomberg e ripresa da Automotive News Europe, ha suscitato sorpresa fra gli osservatori anche perché arriva a meno di due mesi dalla firma (Fiom esclusa) del contratto aziendale con aumenti biennali dell’11% in busta paga. Aumenti fra i più alti concordati in Italia e comunque in linea con l’impennata dei profitti globali Stellantis pari nel 2022 a 21 miliardi lordi, quasi il 12% del fatturato contro l’8% raggiunto da Volkswagen.

Cosa significa lo sciopero di Pomigliano? Il ceo di Stellantis Carlos Tavares sta per subire il trattamento riservato a Marchionne? Tranquilli, la posta in gioco è di tutt’altro spessore. Marchionne nel gennaio 2008 decise di rivoltare come un calzino la peggiore fabbrica d’auto d’Europa (l’assenteismo viaggiava oltre il 10%) sospendendo la produzione e avviando corsi di formazione per tutti i dipendenti, rifacendo da zero mensa, docce e bagni e poi dirottando a Napoli dalla Polonia la produzione della Panda, l’auto più venduta in Italia.

Un’operazione di re-shoring industriale unica in Europa. Accompagnata da una rivoluzione del lavoro che ruotava intorno a postazioni ergonomiche in grado di misurare digitalmente tempo e fatica per ognuno dei 52.000 movimenti degli operai necessari per assemblare una macchina. Si passava così dalla fabbrica verticale sabauda alla fabbrica orizzontale, al gioco di squadra d’impostazione nipponica e tedesca. Marchionne in cambio chiese ai sindacati di eliminare il fenomeno dei microscioperi che affliggevano Pomigliano fin da quando la Dc napoletana aveva imposto all’Alfa Romeo di Giuseppe Luraghi di assumere i muratori che avevano edificato le mura dell’allora Alfasud. La Fiom non firmò. E Marchionne uscì anche da Confindustria pur di mantenere il punto sulle proprie regole contrattuali, anche a costo di essere condannato dal tribunale a far rientrare in fabbrica 19 delegati Fiom.

Paradossalmente lo sciopero dei giorni scorsi nasce proprio dal superamento dell’idea di fabbrica impostata da Marchionne e dall’allora capo manufacturing Fiat, l’ingegnere ex Volkswagen Stefan Ketter. 

Tavares ama stabilimenti assai diversi: frugali, concentrati sulla produzione e senza troppe riunioni organizzative, con un direttore più potente della gestione precedente ma obbligato a trovare il modo più spiccio per ridurre i costi senza mettere in discussione la qualità. Stellantis, è il refrain di Tavares, ha un break even più basso del del 30% rispetto ai concorrenti. Di qui la cura dimagrante inflitta alle 12 fabbriche italiane di assemblaggio e di motori, ricetta identica a quella riservata a suo tempo per Opel: riduzione del personale con incentivi all’uscita fino a 75.000 euro; tagli secchi alle pulizie; affievolimento dei controlli ergonomici; eliminazione di macchinari troppo costosi; vendita a una società di consulenza dell’intera divisione Fiat che si occupava del metodo di lavoro World Class Manufacturing.

E poi: eliminazione della seconda linea di produzione di Melfi per saturare quella superstite resa più economica; semichiusura della fabbrica doppione di Grugliasco per Maserati; aumento dei ritmi di lavoro anche a Mirafiori sulla linea della 500 elettrica per la qual cosa è in corso la cosiddetta “procedura di raffreddamento” con i sindacati firmatari del contratto. Stellantis Italia, insomma, sta adottando sistemi di lavoro in vigore negli stabilimenti Peugeot in Francia e Spagna, notoriamente meno sofisticati e più veloci di quelli italiani.

La cura Tavares è probabilmente inevitabile. I costi delle fabbriche di Marchionne erano più alti di quelle francesi di Stellantis e, soprattutto, solo nel 2017 dalle linee di montaggio italiane sono usciti  più di un milione di pezzi, ovvero una quantità di vetture tale da ammortizzare gli enormi investimenti necessari per varare nuovi modelli e sostenere due marchi difficili e costosi come Alfa Romeo e Maserati.

Questo è il punto vero: il manager portoghese sa benissimo che chiedere più “olio di gomito” agli italiani serve a poco senza investimenti e prodotti premium che vendano molto, ma intanto non rinuncia a stringere tutti i bulloni che può stringere come fa in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Polonia e persino in Usa dove ha sospeso la produzione nella fabbrica di Belvidere. Tutto questo rende stretto il sentiero imboccato da Fiom, per la quale è in agguato l’ironia della storia: rimanere sola a difendere la fabbrica di Marchionne.

@diodatopirone

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