Cina croce e delizia di Sergio Marchionne. Le spine sono tutte concentrate sul marchio Fiat, che a gennaio tra Pechino e Shanghai ha venduto appena 2.059 vetture. Un dimezzamento dei volumi che ha segnato tutto il 2015, anno durante il quale le immatricolazioni della Viaggio e della Ottimo, i due modelli del Lingotto prodotti in Cina, sono scese a quota 31.481 dalle 68.090 del 2014.

All’estremo opposto, neanche a dirlo, Jeep. Nello scorso novembre, nella fabbrica FCA di Changsha è partita la produzione della Cherokee che a gennaio (qui i dati) è arrivata a vendere da sola 8.307 pezzi, ben 300 in più di tutti quelli piazzati dal marchio yankee in tutto il 2015. Ad aprile è poi prevista la presentazione della Renegade al salone di Pechino con l’obiettivo di avviare produzione in loco e consegne a giugno.

Il successo della Jeep in Cina non è una notizia qualunque, poiché sono più di 15 anni che il Lingotto cerca la chiave per entrare in quel mercato. Missione difficile come testimoniano anche i dati ufficiali complessivi di gennaio, secondo i quali tutti i marchi FCA hanno venduto in Cina 14.100 vetture contro le 15.500 dello stesso mese dell’anno precedente.

Tuttavia il boom cinese della Cherokee sembra essere una delle leve che ha consentito un mese fa a Marchionne di portare a 2 milioni annui il livello di consegne globali fissato per la Jeep per il 2018. Jeep che ormai dispone di una rete industriale diffusa su 4 Continenti (Nord e Sud America, Europa e Asia) e che sta registrando una crescita delle vendite globali a ritmi superiori al 20% all’anno ormai da tre anni.

Un successo industriale e di marketing che in Cina potrebbe ridare ossigeno alla stessa Fiat se si riveleranno vere le voci di una possibile produzione in loco anche di 500X e 500L che utilizzano lo stesso pianale della Renegade. In ogni caso per Marchionne e per il suo plenipotenziario in Asia, Mike Manley, c’è moltissima strada da fare. Perché solo a gennaio, in Cina Volkswagen, Audi e Skoda hanno venduto da sole quasi 400.000 vetture.

Commenti
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    So che può essere considerata una digressione dal tema dell’articolo, ma ogni volta che leggo storie di successo sull’industria occidentale (in particolare quella automobilistica) in Cina, non riesco a levarmi dalla testa un chiodo fisso: stiamo regalando know-how ai nostri futuri concorrenti in cambio di profitti a breve-medio termine. Non vorrei si arrivasse a dover invocare misure protezionistiche come fecero gli USA con il Giappone (che hanno i loro pro ed i loro contro, logicamente), ma vedendo quanto è accaduto in molti altri mercati, come l’elettronica di consumo, dove il “Designed in California, Made in China” è all’ordine del giorno, non vorrei mai la stessa cosa accadesse al comparto dell’automobile, che comunque resta tutt’oggi qualcosa di vitale per le economie del Vecchio e del Nuovo Mondo (di esempi ce ne sono molti, uno lo avete citato voi recentemente, http://www.carblogger.it/blog/2016/01/21/tutte-le-auto-italiane-di-marchionne/).
    Sia chiaro che questa è una mia opinione, lontana anni, magari decenni, da un’eventuale realtà, però non mi sembra totalmente campata in aria.

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    Signor Sacchetto non c’è dubbio che lei abbia qualche ragione: l’Occidente cedendo il suo know how sulle auto a paesi come la Cina o il Brasile perde una fetta della sua capacità manifatturiera e del suo Pil. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra è fatta di capacità di allargare il mercato, di filiere produttive ricche (ormai ogni grande fabbrica è inserita in un sistema internazionale a rete sia a monte, fornitori, che a valle, servizi ai clienti) e di utili più consistenti. Tirando le somme è meglio condividere le proprie capacità che tenersele strette. Nel primo caso i vantaggi, economici ma soprattutto politici e culturali, sono maggiori degli svantaggi. In fondo Psa è stata salvata da capitali cinesi e non solo non ha chiuso salvando posti di lavoro europei ma ci ha ricordato anche cosa può fare un buon manager europeo.

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    E’ vero ciò che scrive, ed in parte lo condivido. Inoltre, se analizziamo lo status quo, ha senza dubbio ragione su tutta la linea. Ciò che mi preoccupa, è quando il vento cambierà direzione: tuttavia, essendo il futuro, si sa, impossibile da prevedere, spero solo di sbagliarmi. Ad ogni modo, se guardiamo l’esempio dell’elettronica, l’umanità, fino ad ora, pare ne abbia tratto giovamento (costi di manodopera inferiori -> riduzione dei prezzi -> maggiore diffusione delle nuove tecnologie -> aumento del benessere generale). Quindi, comunque vada, i risvolti positivi ci saranno sempre.

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