Marchionne lo ha detto chiaro e tondo a Ginevra: “Il vero problema che abbiamo è quello di non riuscire a spiegare i vantaggi che la globalizzazione assicura a tutti”. Un problema politico e culturale. Che però rischia di avere riflessi pesantissimi per Fca. Al contrario di Gm che, approfittando del vento trumpiano, si è ritirata – per ora – dall’Europa, l’approccio mondialista è nel dna dell’azienda costruita da Marchionne che, va ricordato, quando si quotò nel tempio global di Wall Street, espose sulla facciata del palazzo della Borsa tre bandiere: l’italiana, l’americana e la brasiliana.

E figlia della globalizzazione “a mille” è l’ultima nata in casa Fca: la Jeep Compass che in questi giorni è stata presentata a Ginevra mentre sta sbarcando nei concessionari americani dove arriva, che scherzi fa il destino, dal Messico.

Già perché la Compass è stata progettata e disegnata in occidente (a Detroit con la collaborazione di Torino poiché la piattaforma è la B-Wide made in Italy, la stessa di Renegade), ma poi viene assemblata in ben quattro Paesi emergenti: Brasile (fabbrica di Pernambuco), Cina (Changsha), Messico (Toluca) e, dal prossimo agosto, India (Ranjangaon).

A dirla tutta, la Compass è partita prima (in autunno) in Brasile dove nello scorso febbraio ha contribuito con 2.791 immatricolazioni ad assegnare a Jeep la quota del 5% del mercato e poi in Cina dove, sempre a febbraio, ha piazzato 4.491 pezzi sui 13.400 venduti dal marchio Jeep (più del doppio delle 5.900 del febbraio 2016).

Da questo mese inizieranno le immatricolazioni negli States della Compass messicana e, beh, sembrano esserci  le premesse per provocare un mezzo stranguglione ai trumpisti. Mike Manley, il gran capo di Jeep (e Ram) a Ginevra non ha nascosto l’ambizione di un piano che faccia di Compass la concorrente di Toyota Rav4, Ford Escape, Honda CR-V e in Europa della Nissan Qashqai. Tutti modelli da oltre 300.000 pezzi annui.

Compass potrà contare su 17 motori nelle varie versioni nel mondo; commercializzazione in 160 paesi; produzione concentrata in India per tutti i paesi con guida a destra (dal Regno Unito al Giappone); vendite in Usa pianificate per superare i circa 250.000 pezzi messi assieme dalla precedenti Compass e Patriot ancora figlie della gestione Daimler di Chrysler; un piano di sfondamento in Europa (che non pone dazi sui prodotti messicani) dove la Renegade prodotta a Melfi oggi copre una quota dello 0,5% del mercato complessivo tranne che in Italia dove viaggia sul 2%.

Secondo Manley sarà la Compass a spingere le vendite globali di Jeep oltre quota 2 milioni nel 2018, anno cruciale per il marchio americano perché vedrà l’arrivo della nuova Wrangler e della nuova Cherokee entrambe assemblate in fabbriche yankee nuove di zecca (Toledo Nord la prima e Belvidere la seconda) con l’obiettivo di produrle non solo per soddisfare la domanda Usa ma anche per esportarle in buon numero in Europa.

In tanto attivismo non mancano i nodi da sciogliere. Il primo, e quello che riguarda le fabbriche italiane più da vicino, è la possibile cannibalizzazione di Renegade. Compass è più lunga di 13 centimetri della sorella assemblata (anche) a Melfi,  ha un design molto diverso, vicino a quello della Grand Cherokee, e un prezzo  più alto. In Brasile Renegade (anch’essa prodotta a Pernambuco) ne ha sofferto perché viaggiava sui 3.500/4.000 pezzi al mese e ne ha persi un migliaio. In Cina Renegade (assemblata a Guangzhou) soffre di suo perché non è mai riuscita a bissare il successo della Cherokee che da sola immatricola fra i 7 e i 10 mila pezzi mensili. Vedremo ora che succederà sul mercato americano che l’anno scorso ha assorbito la bellezza di 150.000 Renegade made in Basilicata.

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