Nel Festival di Sanremo del 1967, quello che passò alla storia per il suicidio di Luigi Tenco, fu lanciata una originale canzonetta sinteticamente intitolata “Pietre”. “Se sei bello ti tirano le pietre, se sei brutto ti tirano le pietre…qualunque cosa fai le pietre prenderai…”. Il ritornello mi è tornato in mente in questi giorni leggendo del caso Fiat…pardon Stellantis.

Non che la cosa sia una novità per l’Italia. Sergio Marchionne ha preso la sua razione di pietre per almeno 12 dei 14 anni del suo regno, ovvero dopo essersi azzuffato con la Cgil e aver bloccato il tentativo di un pezzo dell’establishment italiano di accaparrarsi a buon prezzo le briciole dell’impero Agnelli.

Ma perché gli italiani trattano così male ciò che resta della nostra industria automobilistica? L’Avvocato se n’è andato da più di 20 anni e il Lingotto ha cambiato il suo dna più volte, addirittura cambiando nome in FCA e poi in Stellantis, eppure al trapasso dell’azienda Fiat sopravvive un “dis-fiattismo” profondo, immutabile e cupo. Passano gli anni ma il ritornello è sempre lo stesso: Fiat è in crisi perché guidata non da industriali ma da capitalisti e finanzieri che vogliono uscire dall’auto e quindi prendono i soldi degli italiani e contemporaneamente vendono agli stranieri una quota di manifattura italiana.

Il lancio di pietre è trasversale. Il governo sovranista ne ha fatto un mantra sloganistico (Meloni: “Le auto italiane vanno fabbricate in Italia”). Ma la sinistra, a partire dalla Cgil, non è da meno anche se ha smussato le accuse di sfruttamento e autoritarismo che sommersero Marchionne. Sulle barricate si fanno vedere anche pezzi di Confindustria, rappresentanti di interessi piemontesi e il senatore Calenda che in Parlamento ha dato del bugiardo a Tavares ed Elkann. Poco importa che il “fronte dis-fiattista” sia sconnesso e usi una retorica illogica: coloro che oggi accusano Elkann d’aver venduto la Fiat ai francesi sono gli stessi che accusavano Marchionne d’aver venduto Fiat agli americani. E non si capisce poi come la destra e le imprese anti “green deal” possano aver accusato Fiat per anni di non aver creduto nell’innovazione e oggi diano dell’estremista verde a Tavares colpevole d’aver varato per tempo un piano industriale pro-elettrico.

Si tratta di un racconto tutto politico e molto provinciale, collegato più al tifo anti-Juve che con l’evoluzione dell’economia mondiale e con i grandi nodi strategici dell’automotive come l’arrivo in Europa della valanga cinese che sta rovesciando l’accordo trentennale con la grande manifattura tedesca o il rifiuto dei consumatori di comprare auto elettriche. Non c’è niente da fare: nell’Italia dei Guelfi e dei Ghibellini non si discute mai del merito di un tema ma ci si schiera sempre contro qualcuno. Sul piano culturale, poi, il “dis-fiattismo” si alimenta di un diffuso sentimento anti-industriale e di quel complesso d’inferiorità che fa oscillare da sempre gli italiani fra l’autodenigrazione (e Fiat resta un logo forte dell’italianità) per cui all’estero si fanno auto migliori e l’aggressività o il rancore verso gli stranieri (“ci portano via tutto”).

Spicca, infine, la disonestà intellettuale di alcuni commentatori e conduttori televisivi di sinistra che hanno spalato tonnellate di fango su Marchionne, trattato come un giocatore di poker, e ora ricordano che fu lui nel 2017 a riportare la produzione di veicoli italiani sopra quota un milione per sottolineare quanto peggiore sia l’attuale gestione a traino francese. Non una parola è stata spesa da costoro nel peggioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche Fiat dopo lo smantellamento del costoso sistema WCM (World Class Manufacturing) fortemente voluto dal manager italo-canadese.

Scrivere questo articolo mi costerà l’esilio nella curva, vuota, dei tifosi aziendalisti. In realtà ho scritto più volte che la famiglia Agnelli e la Fiat hanno responsabilità pesanti nella rottura del loro rapporto con gli italiani. Quella che è stata l’azienda privata più importante del Paese non ha saputo spiegare le ragioni per cui non funzionava più. Inoltre Fiat Italy, nonostante la massiccia cura Marchionne, si è presentata all’appuntamento con la fusione con Peugeot con i conti ancora in profondo rosso ed è stato inevitabile che Tavares abbia sostituito gran parte della motoristica e del know how manifatturiero italiano semplicemente perché gli analoghi segmenti francesi costavano di meno.

Questo è il punto che l’Italia prima o poi dovrà affrontare: come si abbassano i costi di produzione dell’auto in Italia? Sono sostenibili 12 stabilimenti Stellantis in Italia? Ragioniamoci su come Sistema Paese, vediamo di sfruttare al meglio la notorietà mondiale dei grandi marchi automobilistici “made in Italy” e la nostra capacità di esportare anche attraverso la rete commerciale europea di Stellantis decisamente messa meglio rispetto a quella Fiat. Oppure continuiamo a divertirci tirando pietre, ma fino a quando?

@diodatopirone

Lascia un commento