Il 12 marzo Gianni Agnelli avrebbe compiuto cent’anni, come viene celebrato ovunque in questi giorni. Incenso e mirra, anche se non ne avrebbe avuto bisogno, né come uomo, né come industriale.

Mi è sufficiente pensare che un padre sopravvissuto al suicidio di un figlio dica molto sull’uomo, aggiungendo ciò che Eugenio Scalfari scrisse di lui il giorno seguente la scomparsa: “Cinici non si nasce, lo si diventa”. Sul politico e capitano d’industria basta ricordare l’enorme potere d’interdizione sulla vita pubblica e privata italiana – è “l’establishment permanente”, disse di lui l’amico Henry Kissinger – anche se di quella stessa politica che pesantemente influenzava ha spesso avuto bisogno per la sua Fiat, dagli incentivi per le fabbriche come Melfi alle rottamazioni.

Cent’anni dopo, di Gianni Agnelli e della sua auto di ieri vale la pena tornare a scrivere anche alla luce riflessa di Stellantis.

La mattina del 24 gennaio del 2003 ero a passeggio per Roma perché in corta, come si dice nel gergo dei quotidiani quando si prende un giorno libero. Mi squilla il cellulare e la vicedirettrice mi annuncia “è morto Gianni Agnelli”. “Oggi non sarei al giornale”, ma nemmeno un’ora ed ero lì:  “Allora scrivi tu un suo profilo”. Il signor 51 per cento, dico come prima cosa, perché Gianni Agnelli aveva provato più volte a mettere in strada la sua Fiat per una alleanza o una fusione, senza riuscire: avrebbe voluto mantenere comunque il volante del nuovo gruppo. Finché un giorno, il 13 marzo di ventuno anni fa, 24 ore dopo il suo compleanno si regala la rinuncia al 51 per cento. Per Torino sembrò l’inizio della fine.

L’Avvocato, come veniva chiamato con il suo benestare (“è un nome d’arte”), aveva il cuore oltreoceano, in quell’America dove il nonno fondatore era stato il primo europeo ad andare a studiare come si facevano le automobili a Detroit. E’ Gianni Agnelli a tentare una fusione con Ford Europe nel 1985, poi una fusione con Chrysler nel 1990 (mancò il coraggio, disse successivamente il suo amministratore delegato Cesare Romiti) fino a cedere nel marzo del 2000 alla Gm l’opzione di acquisto del gruppo Fiat nel 2004, il famoso put.

Era l’ultimo atto – insieme al “no” a un matrimonio giudicato ineguale con Daimler – dopo che negli anni ’90 l’auto italiana da lui presieduta aveva perso il treno della rivoluzione elettronica che stava trasformando la mobilità. Nessun treno della concorrenza era poi stato fatto fermare in Italia, con lo straniero respinto sempre sulle Alpi da Fiat, come capitò per esempio alla Ford nel 1986 con l’Alfa Romeo. Peggio del Piave: “Altro che corporate governance: se uno dei fratelli prendeva una decisione, la discussione terminava lì”, ha raccontato recentemente Carlo De Benedetti in una bella intervista al direttore di Quattroruote.

Sul ruolo di Gianni e del fratello Umberto e della Famiglia non mancano le cose negative da ricordare, a partire dalle schedature degli operai da parte dell’azienda, ma anche cose che non si possono dimenticare, come quella folla di gente comune in fila per ore sulla rampa del Lingotto per accedere alla camera ardente dell’Avvocato. Era il 25 gennaio 2003.

A Torino subito dopo è storia moderna: Sergio Marchionne brandisce il put  con cui passa all’incasso da Gm, poi salva Fiat e si compra il gruppo Chrysler con i soldi dell’amministrazione Obama. E’ finalmente l’America, bellezza.

A Torino ora è storia contemporanea: Stellantis e John Elkann. Curiosa la vita: il nipote dell’Avvocato, da presidente Fiat Chrysler a presidente di Stellantis, compie 45 anni l’1 aprile, la stessa età in cui l’Avvocato ha cominciato a lavorare alla Fiat (era il 1966.) E se il nonno lo aveva indicato da ragazzo come suo successore, Gianni a sua volta da nonno fa lo stesso appena John compie 22 anni.

Cent’anni dopo, non sono più tempi da 51 per cento né di put: Stellantis è a guida francese, però è anche vero che l’Avvocato con la sua creatura sta ancora nell’auto. Il suo erede non ha mollato. A 45 anni sarebbe stato troppo presto. O troppo tardi?

@fpatfpat

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