E’ difficile dire se e quanto manchi il marchio Lancia, tanto più in un’epoca in cui sembra non mancarci più nulla, o tutto. Ma che nel gruppo Stellantis sia destinato a vivere e a lottare con noi – dopo essere stata cancellato nell’ultimo piano di Marchionne – è una buona notizia. Lancia sta nel business plan approvato fino al 2030, dopo la mossa geniale di aver nominato capo del centro stile Jean Pierre Ploué che è anche responsabile del design di Stellantis. Come dire, non spreco un asso se avessi in mano due sette, un otto e un nove.

Eppure la domanda resta: abbiamo bisogno di Lancia? Il marchio è Novecento. E’ lancisti come un mio vecchio zio avvocato che nella sua vita orgogliosamente non ha mai comprato altro, è storia di innovazione, di eleganza, di sport e di conti quasi mai a posto fino a quando nel 1969 Gianni Agnelli lo rilevò da Pesenti “per una lira”, cioè comprandosi i suoi debiti.

Oggi Lancia è memoria, più la Ypsilon venduta soltanto in Italia. Stilisticamente ancora giovane e bella al punto di essere una best seller con l’aiutino del prezzo giusto ormai ampiamente ripagato, quanto vecchia dentro, basta andare a guardare i tristi risultati dell’ultima prova euroNcap del 2015.

L’altro giorno sono stato invitato a Torino dal ceo di Lancia Luca Napolitano, per sentir parlare di futuro. Nei piani, sono stati confermate una nuova Ypsilon nel 2024, un altro modello nel 2026 e l’erede della celebre Delta nel 2028, data in cui il marchio italiano diventerà soltanto elettrico.

E’ stato un incontro di molto design e di molto marketing. Pu+Ra Zero (in foto sopra) ci è stata svelata come un oggetto che vuole iniziare a raccontare dove vanno stile e domani del marchio. Una narrazione che prende il futuro alla larga, anche se alla mia obiezione Napolitano ha risposto sincero: potevamo non fare nulla e attendere aprile per vedere insieme il prototipo della nuova Ypsilon.

Touché, come avrebbe detto il suo amico Ploué lì a fianco: questo abbiamo, sembra poco o niente ma è meglio di nulla (traduco a modo mio). E mi piace (anche perché qualche collega ha storto il naso) che invece del solito concept spettacolare a forma di macchina la scelta sia stata una sorta di scultura. E’ modernità e ancora Novecento, se penso che Flaminio Bertoni, magnifico creatore di Citroen DS e di molto altro, era uno scultore.

Pu+Ra Zero mi ha poi fatto venire in mente certe regole del dandy: cura e attenzione per il superfluo anche in mancanza del necessario. E se Lancia diventasse un marchio dandy? Vabbè, esagero. Però non so ancora se c’è bisogno di Lancia e una risposta – per un marchio così evocativo – l’ho trovata in una frase di Baudelaire, che ogni tanto vale la pena rileggere (come molti altri): “Il mondo sta per finire. La sola ragione per cui potrebbe durare è il fatto che esiste”.

@fpatfpat

Commenti
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    “Allora dov’eravamo rimasti?” Verrebbe da chiedersi.

    Ai favolosi anni ‘70. Correva l’anno 1972 e la Fulvietta era spacciata.

    Il Monte era una faccenda tra Porsche 911 e Alpine A110.

    Sotto i flash lo squadrone delle ringhiose Alpine di Dieppe volute da Jean Rédélé con la preparazione motoristica di un italiano: Amedeo Gordini, il tecnico progettista e guru del “Nous mettons tout notre savoir faire” per vincere.

    I francesi si aspettano il dominio delle Alpine, contrastate solo dalle meno maneggevoli e potenti Porsche.

    La Fulvia Hf di Munari e Mannucci n. 14 era una comparsa, lì tanto per far numero, vecchia agli occhi di tutti, di un’altra generazione, a trazione anteriore, aveva tutto ciò che serviva per perdere: troppo pesante (200 chili più dell’Alpine) e poco potente (110 cavalli meno della 911).

    Inizia il Monte.

    Inizia con la battaglia tra Alpine con le Alpine e le Porsche.

    Ma dietro gli arrembanti Galli di Francia e le Porsche c’è Lui.

    Il Drago e la vecchia Fulvietta tengono botta. Precisi, puliti e veloci, lasciano scatenare le Alpine e le Porsche che si scannano tra loro speciale, dopo speciale.

    All’alba del 27 gennaio la Fulvia di Munari e Mannucci, incredibilmente si è portata nella notte di neve e di ghiaccio in terza posizione, contro ogni pronostico e sono pronti dopo un panino al prosciutto nella notte buia e tempestosa a giocarsi l’ultima carta, la prova più dura, quella del Col de Turini, sotto una pioggia battente che si trasforma ben presto in una tormentata bufera di neve: condizioni al limite dell’impossibile.

    Le Porsche non tengono la strada: troppa la potenza da scaricare a terra, quando sotto le ruote c’è neve e ghiaccio. Le Alpine muoiono una dopo l’altra, Andruet sbatte contro la montagna, Darniche e Andersson rompono il cambio.

    La Fulvietta vola, vola nella tempesta di neve del Turini e volerà fino al traguardo, quel 28 gennaio del 1972.

    La Fulvietta con quel V4 stretto monotestata sotto il cofano, sbancò di nuovo e contro ogni pronostico il Monte del ‘72.

    Il lunedì dopo, furono richiamati al lavoro gli operai delle linee di produzione della Fulvia Coupé, chiuse da un mese perchè il modello era vecchio e non vendeva più.

    Dopo quel Montecarlo tutti volevano la vecchia Fulvietta, le richieste si impennarono, l’attività fu ripresa e gli operai tornarono al lavoro.

    Poi arrivò la Regina.

    La strabiliante Stratos.

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    Stratos, la rinascita Lancia.

    La crisi economica della fine degli anni Sessanta sembra non aver fine.

    Domeniche di austerity senza auto e traffico, domeniche di libertà.

    Lancia è in piena crisi finanziaria, è sopravvissuta durante il boom economico con le tre “F”: Flaminia, Flavia e i successi nei rally della Fulvia Coupé HF la Fulvietta tutto avanti con quel compattissimo motore V4 monotestata esempio unico di ingegneria meccanica.

    Nel 1969 per non dichiarare fallimento Carlo Presenti cede Lancia ad una lira a Fiat che lo stesso anno rileva Autobianchi e Ferrari.

    Oltre al rinnovo con la Beta e della Gamma ci vuole qualcosa di tremendamente veloce che contrasti l’attacco delle Alpine A110 e delle potenti 911 che stanno soverchiando l’agile Fulvietta HF del Drago, sui tornati del Col de Turini al Montecarlo e negli altri tracciati del campionato rally.

    A Grugliasco c’è un genio con i calzini rosa, si chiama Nuccio e vuole plasmare Lancia con una nuova forma: il cuneo deportante incidente, introdotto in F1 da Colin Chapman. Il miglior rapporto tra incidenza e deportanza.

    Nuccio vuole realizzare un one off, un prototipo sbalorditivo come quegli anni per poi dare inizio ad una nuova epopea Lancia nei rally.

    Nuccio dai calzini rosa pensa in grande, vuole una sportiva dall’impostazione innedita, serve Marcello Gandini, il padre della Miura dal lungo cofano vuoto e dal rimmel attorno ai fanali.

    L’idea è di copiare la Miura con il suo motore posteriore trasversale, eliminando il lungo cofano vuoto anteriore per tirare la linea inclinata del cuneo deportante incidente.

    Il cuneo si chiama Stratos Zero il cuore è l’ormai modesto 4 cilindri a V stretta di 1,6 litri da 115 CV, in posizione centrale e ribassata per fare gravare il peso sulle ruote motrici e incrementarne la trazione. Gandini realizza pure una carreggiata posteriore più larga rispetto a quella anteriore per montare pneumatici larghi per avere maggiore trazione, una migliore tenuta di strada e una maneggevolezza superiore, favorita dal passo corto, dal baricentro basso e con una distribuzione dei pesi ottimale.

    Marcello arretra i montanti del tetto e realizza un parabrezza avvolgente, parabolico, per consentire al Drago di fare la differenza negli stretti tornanti di montagna… vedere oltre lo sguardo.

    Manca solo il cuore, un cuore che deve ruggire più del flat six della 911 di Porsche.

    Un sei cilindri da corsa per battere Porsche.

    Bisogna andare a Maranello e cercare qualcosa di straordinario…

    E qualcosa di straordinario c’era, era il testamento scritto da Alfredino Ferrari, quel fantastico motore Dino Ferrari che dominò la F2, sarà quello il cuore e il ruggito della Stratos, probabilmente la più stupefacente, futuristica worldrally car di ogni tempo, una anticipazione dei prototipi dei gruppi B che seguiranno.

    Stratos, il cuneo deportante incidente di Lancia che ruggì nel nome di Alfredino Ferrari.

    È la dimostrazione che nei momenti di crisi bisogna reagire per non morire. E Lancia reagì dominando i rally con un progetto geniale, stupefacente.

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    037

    Correva l’anno 1981 quando la FIA introdusse il nuovo regolamento Gruppo B per le corse stradali che lasciava svariate interpretazioni tecniche e facilitazioni nell’evoluzione dei mezzi ai costruttori.

    Si concorreva realizzando una vettura stradale prodotta in 200 esemplari con caratteristiche tecniche prossime alla versione impiegata in corsa. L’obiettivo era ideare un’auto vincente cercando di utilizzare soluzioni tecniche azzardate ed estreme per collaudarle e svilupparle nell’evoluzione.

    Fiat eliminò il paradigma 131, la vettura da rally per famiglie derivata dalla grande serie di produzione, responsabile con il precedente regolamento dell’estinzione della Stratos.

    Ritornò l’ipotesi Stratos, progettare una vettura da competizione fine a se stessa, creata specificatamente per le corse.

    Il ricordo glorioso dell’icona Lancia, la Stratos, indusse a pensare ad una tuttodietro con motore centrale longitudinale e sospensioni a quadrilateri come nelle monoposto da pista per avere un’ampie possibilità di regolazioni di assetto e di camberaggio utilizzando pneumatici sia radiali che convenzionali.

    Il telaio dell’ing. Limone a struttura mista lamiera e tubolare a gabbia con cellula centrale si concludeva anteriormente a livello della pedaliera e posteriormente alle spalle dell’equipaggio. Alla cellula centrale erano fissati i due telai a traliccio anteriore e posteriore smontabili velocemente nelle assistenze per sostituire avantreno o retrotreno danneggiati.

    Questa era la caratteristica che la rendeva unica. In poco tempo si sezionava in tre parti la 037 e si sostituivano i telai incidentati, le sospensioni e i radiatori.

    Audi prese un’altra strada, quella delle soluzioni tecniche complicate e azzardate. Motore a 5 cilindri, trasmissione a quattro ruote motrici con differenziali e turbocompressore con intercooler. Sovralimentazione presente nella produzione di serie nella Saab 900 e in F1 nella yellow pot Renault RS01 che non finiva una gara.

    L’Audi era complessa, mastodontica e pesante, la Lancia leggera, essenziale e smontabile come un kalashnikov.

    Espressione di complicata, alta ingegneria tedesca, l’Audi, opposta ad una Lancia essenziale, smontabile, larga, bassa e leggera, un prototipo da strada con soluzioni da pista.

    Utilizzare il turbocompressore per il bialbero a 4 valvole Abarth era una scelta azzardata, le turbine avevano problemi di affidabilità e Lancia già promuoveva il suo Volumex nelle berline di serie per renderle guizzanti sulle strade tortuose e nei tornanti stretti, senza ritardi nell’accelerazione.

    La 037 era imbattibile sull’asfalto, praticamente un prototipo da pista con un leggero essenziale 4 cilindri a carter secco supportato dal Volumex che la fiondava all’uscita delle curve e cambio ZF da corsa.

    Il telaio collaborante in lamiera e tubi era in grado di resistere a sollecitazioni violentissime come i salti del 1000 Laghi. Il roll-bar realizzato con tubi di 35 mm di diametro, a gabbia, aveva quattro montanti laterali raccordati sul tetto e alla base da puntoni di collegamento, offriva un’elevata sicurezza passiva, a quella attiva provvedeva, l’assetto, il basso baricentro e le sospensioni da pista con addirittura 3 ammortizzatori al posteriore.

    Ma tutto questo non fu sufficiente nelle curve strette dell’asfalto del Tour de Corse. Nella quarta prova speciale, Bettega perse il controllo della 037, che si schiantò contro un albero. L’urto, spaventoso, divise i due parti longitudinalmente, da muso a coda la 037, proprio a metà del sedile del pilota.

    L’Italia e la Squadra Corse Lancia persero uno dei più grandi piloti da rally di tutti i tempi.

    Attilio Bettega.

    Questo è quello che ricordo.

    Ricorderò sempre di più Attilio Bettega, Henri Toivonen e il suo navigatore, Sergio Cresto, meno le vittorie.

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    Lancia nell’ombra dell’Isotta.

    Lancia prima della crisi economica mondiale che iniziò a Wall Street si ispirava al mito italiano dell’Isotta Fraschini, ambite da Gabriele d’Annunzio e Rodolfo Valentino, che circolava a Hollywood con le sue due coupé de ville.

    L’operazione di marketing che distinse le Isotta dalle altre marche fu ideata dal conte Lodovico Mazzotti, che indirizzò la produzione verso automobili esclusive destinate a una clientela internazionale di reali, attori, finanzieri e parvenu.

    Lo status simbol Isotta venne immortalato anni dopo in Viale del tramonto “Sunset Boulevard” interpretato da William Holden, Erich von Stroheim e da Gloria Swanson nel ruolo di Norma Desmond, le cui iniziali sono incise sulle porte posteriori dell’Isotta 8A del 1920 allestita come quelle di Rodolfo Valentino da Castagna a Milano.

    Tra la fine degli anni ‘20 e i primi anni ‘30 fu la Duesenberg che si propose come la vera rivale dell’Isotta.

    Alfa Romeo e Bugatti producevano auto più sportive, leggere, essenziali e aerodinamiche. Ad eccezione della monumentale Royale.

    Bentley e Mercedes Benz, erano sportive appesantite nella ricerca di affidabilità e robustezza.

    Rolls Royce e Hispano Suiza si offrivano a nobili e a Re e Maharaja, se questi avevano già un’Isotta Fraschini e una Duesenberg nelle scuderie.

    Lancia ambiva a quell’elite automobilistica, produceva auto per l’alta borghesia con caratteristiche sia sportive che lussuose, ispirandosi all’Isotta ma con prezzi più accessibili, fu così che l’economica e lussuosa Lambda sopravvisse alla crisi e venne prodotta fino al 1935 senza aiuti governativi a parte la fornitura alla Regia Aeronautica.

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    L’epopea dei gruppi B terminò con l’S4, il Triflux e il laboratorio ECV1.

    Ci fu un tempo dove gli italiani, un popolo di santi, poeti, e navigatori divennero anche ingegneri.

    A quel tempo, in un’accesa tenzone si fronteggiavano tedeschi con l’egida di 4 anelli, francesi sotto il vessillo di un ruggente leone, inglesi con l’emblema del vascello a vele spiegate ed italiani pronti a scagliare la loro lancia.

    Iniziarono a far sul serio i tedeschi, trasformando i loro 4 cerchi in affilati artigli per ghermire neve e ghiaccio e azzannare l’asfalto.

    In breve anche il leone dei francesi, che già gli aveva, affilò i suoi artigli e spostò alle spalle del pilota il suo leggero, semplice e potente motore.

    Gli italiani che poco sapevano di trazioni integrali, umilmente studiarono, sperimentarono e facero errori ma avevano dalla loro il Leonardo delle turbomacchine, un saggio e pacato ingegnere alessandrino che con il suo genio ideo la macchina più spaventosa fino ad allora mai vista.

    Quella spaventosa turbomacchina dopo poco tempo non solo s’impose su tutte, ma anche su tutti. Preoccupava i più grandi piloti di tutti i tempi, tale era la sua velocità da battere anche quella del loro pensiero.

    Il Leonardo delle turbomacchine, mai pago dei risultati ottenuti, impiegò il suo genio ispirato per creare di nuovo qualcosa di inimmaginabile che avrebbe permesso a quella lancia la supremazia assoluta.

    Ma il timore di quei grandi piloti era fondato, la mostruosa creatura sparse il sangue dei due più valorosi ed intrepidi.

    Di fronte ad una tale tragedia anche la nuova geniale ideazione fu consegnata all’oblio, le spaventose turbomacchine scomparvero ed i piloti restarono miti senza rischiare di perdere la vita.

    Oggi restano di quella gloria, le gesta e le immagini di quei valorosi che cercarono di domare la spaventosa turbomacchina sulle strade del mondo.

    Nascosto chissà dove, giace quel trovato d’ingegno a tre flussi del Leonardo alessandrino.

    Tanto tempo è passato da allora, le nuove generazioni non guardano al passato, anche se a volte qualcuno pensa che per comprendere quello che siamo, dobbiamo sapere quello che è stato fatto prima di noi.

    Quel segreto consegnato alla storia vale la pena di ricordarlo, sperando ci sarà un tempo dove si potrà vedere e sentire di nuovo quel mostro spaventoso ruggire senza gemiti perché dotato di quel trovato d’ingegno ideato per le turbomacchine a quattro valvole per cilindro, incrociando i flussi dei turbocompressori: il Triflux che non fu.

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