Marchionne dovrà remare controcorrente per arrivare alla soglia del piano quinquennale che ha annunciato due giorni fa a Detroit. Nulla di nuovo: il manager italo canadese è abituato a piazzare scommesse d’azzardo, e ho il sospetto che in fondo trovi persino un piacere sottile nel combattere partendo dall’angolo.
Si è presentato alla platea degli analisti finanziari ad Auburn Hills con una pattuglia di manager di grande calibro, e ha offerto il risultato di una progettazione meticolosa, accurata, ossessiva nella cura dei dettagli. Ma la platea non gli ha creduto, e le esitazioni che avevano accompagnato il titolo il giorno dell’annuncio si sono tradotte in una ondata di vendite speculative il giorno dopo.
Marchionne ha presentato un programma che tutti concordano nel giudicare ambizioso: il traguardo delle 7 milioni di unità per il 2018, la crescita esplosiva del marchio Jeep in Asia e in Sud America, il miracolo di consegnare all’Alfa una trasformazione che molti hanno sognato prima di lui, ma che nessuno è mai riuscito a realizzare. Mete che saranno presto verificabili con scadenze di calendario certe, e sulle quali sarà giudicato con puntualità.
Ma per l’immediato ha dovuto mostrare agli analisti una realtà che nessun operatore finanziario può barattare in cambio di un sogno: Fiat ha fallito gli obiettivi del trimestre appena passato, e l’ammontare del debito continua a pesare sul bilancio delle due società. Il sospetto che quest’ultimo sia destinato a crescere appena dopo, se non addirittura prima della fusione, ha finito per precipitare il giudizio e affossare il titolo in borsa.
Il Ceo in girocollo è condannato a correre sul filo del rasoio, ancora più di quanto già non gli piaccia spronare le aziende che conduce. In Fiat ha trovato una serie di modelli le cui cifre di produzione erano troppo basse per restare sostenibili, e che sono condannate a sparire. In Chrysler è andata ancora peggio: nel 2009 al momento della bancarotta i portfolio erano vuoti, e la Casa aveva un bisogno disperato di nuovo prodotto per restare in mercato. Allo stesso tempo gli impianti erano antiquati e negletti, quasi inutilizzabili. Ci sono voluti uno sforzo progettuale e un costo di denaro giganteschi per approntare nel giro di due anni gli uni e gli altri, tagliare il time to market di un nuovo modello a 16 mesi, bruciare i tempi del ramp up, l’accelerazione della produzione in fase di lancio. La Chrysler è riuscita a compiere il miracolo, ma anche sua profittabilità è minata dal costo dei nuovi investimenti e dall’ammortamento del debito.
Su questa rincorsa continua si innesta ora un progetto di enorme espansione industriale che è destinato nella migliore ipotesi a prolungare le tensioni tra la FCA e il mercato finanziario prima dell’affermazione, e nel peggiore a fallire.
Gli analisti che guardano all’immediato hanno già pronunciato il loro scetticismo. E noi? Noi italiani intendo, non possiamo che dare credito al sognatore Marchionne per averci almeno provato. Con la Fiat che andrà a cercare in Cina e in Sud America la sua sopravvivenza, la Lancia ridotta ad una presenza di immagine, le fortune della Jeep in Europa ancora tutta da verificare, le speranze di reimpiego dei nostri cassaintegrati sono tutte legate alla parte più ardita del sogno di Marchionne, quella Alfa da 400.000 unità che lo stesso a.d. ha ammesso sarebbe più contento di vendere che dover rilanciare, e per la quale tuttavia ha accettato una sfida che non possiamo non augurargli di vincere.