Carlos Ghosn (si pronuncia Gon) è l’ultimo imperatore dell’industria dell’auto. Oggi è in galera a Tokyo con l’accusa di false dichiarazioni alla borsa sui suoi compensi (stellari) e di aver utilizzato a scopi personali fondi e benefit della Nissan. Di cui è stato presidente fino al licenziamento odierno e dopo aver lasciato il posto di ceo l’anno scorso a un suo (presunto) delfino giapponese. In tre giorni, Nissan ha aperto lo sportello e lo ha buttato giù in corsa, come succede nei film di gangster.

Senza voler giustificare niente e nessuno, mi sembra tuttavia strano che certe azioni o certe sovrapposizioni fra sfera privata e aziendale a questo livello di potere assoluto, reiterate per anni secondo le accuse, si scoprano nello spazio di un mattino. Eppoi: soldi, montagne di soldi. Strano, per uno che non saprebbe quando spenderli, ossessionato dal lavoro con cui ossessiona i suoi manager.

Strano che finisca o stia per finire così Ghosn, l’ultimo imperatore di un mondo che sta cambiando molto velocemente. Anzi, un tiranno dell’auto,  un uomo solo al comando come forse è stato soltanto Sergio Marchionne. Che annata incredibile.

I giudici diranno della fondatezza delle accuse, resto sempre garantista ma una cosa mi è chiara. Se qualcuno avesse voluto opporsi a una sua decisione o fare cose diverse alla Nissan come alla Renault o nell’Alleanza a tre Renault-Nissan-Mitsubishi (di cui è il capo supremo dal 2005), Ghosn sarebbe stato da rimuovere. Con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo. Mediazione impossibile.

Lui voleva fare una cosa adesso, l’ultima avendo un contratto in scadenza (il quarto) nel 2022: trasformare l’Alleanza in una fusione. Pressato dal governo francese, cui aveva resistito per un po’ e infine accettato la missione facendo però posto a un numero due, Thierry Bolloré (personaggio opposto) e – c’è da sorridere – e a una riduzione del compenso del 20%.

Una fusione, ça va sans dire, con sede di comando a Parigi. Come lo è l’Alleanza, nonostante il più profittevole e il più internazionale dei due partner sia Nissan e non Renault (Marchionne invece spostò il baricentro di Fiat Chrysler negli Usa, seguendo i profitti). Qui va così dal 1999, quando Ghosn fu mandato a Tokyo dal presidente di Renault Louis Schweitzer a salvare la neocontrollata giapponese dalla bancarotta. Con l’ordine di non fare prigionieri.

Oh my Ghosn! Chi l’avrebbe mai detto che, dopo Marchionne seppure in altra circostanza, potrei perdere la mia seconda ossessione professionale nello stesso anno? Uno con il quale si portava a casa sempre una notizia, uno spunto, una provocazione?

Ricordo di aver chiesto di corsa (e ottenuto) un incontro con Ghosn dopo aver letto la sua prima semestrale Nissan nell’autunno di 18 anni fa, un miracolo fatto di lacrime e sangue giapponesi. Nell’aprile del 2005, alla vigilia della sua incoronazione a Parigi, sono stato con lui una settimana in giro per il Giappone (unico giornalista italiano invitato) e, fra le tante, mi viene in mente un suo faccia a faccia con uno studente di ingegneria: “Un giorno tutto questo sarà suo”, gli fa, e il ragazzo quasi sviene.

O ancora un giorno di quattro anni fa vicino Nantes, durante un pranzo di lavoro, seduto di fronte a lui. All’obiezione che il suo mirabolante obiettivo di auto elettriche non era stato largamente raggiunto, mi rispose così: “Senta, quando lei gira in auto a Roma e finisce la benzina, che fa? Va dal benzinaio e lo trova subito. Con l’auto elettrica non si trova una colonnina, ecco il problema”. Oh my Ghosn!

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