La mattina di venerdì 24 gennaio del 2003 stavo in corta, come si dice in gergo nei giornali. A spasso per Roma, mi squilla il cellulare e rispondo alla vicedirettrice: “Ciao, oggi non lavoro”. “E’ morto Gianni Agnelli”. Giusto il tempo di correre in redazione e scrivere questo pezzo sull’Avvocato, la cui scomparsa meriterà diverse pagine. Ricordavo il motivo perché nell’auto Agnelli, fra Kissinger e Craxi, fra Berlusconi e Gheddafi, fra Cuccia e Di Pietro, non avesse mai fatto un grande alleanza o una fusione: la maggioranza sarebbe sempre dovuta spettare alla sua Fiat.

Gianni Agnelli è l'”establishment permanente”, diceva il suo amico Henry Kissinger, venuto ora a Torino per l’ultimo saluto. Dunque, più potente di un qualsiasi primo ministro nell’Italia dei governi balneari e il più credibile per la rete di relazioni internazionali sviluppare nel jet set degli anni Cinquanta e Sessanta, quando per lui era meglio che lavorare. Il potere d’interdizione dell’Avvocato sulla politica interna italiana dal 1966 – quando assume la presidenza della Fiat, a 45 anni – ha sempre avuto un riscontro in quella che si potrebbe definire la sua politica estera. Una coincidenza di interessi (Fiat) che ha avuto il suo apice – e il vistoso inizio del declino – nella nomina da lui sponsorizzata di Renato Ruggiero a ministro degli esteri del governo Berlusconi nel giugno del 2001 (con la benedizione a Roma di Kissinger). Ruggiero fu defenestrato sette mesi dopo, a Torino volarono solo fichi d’India.

Agnelli ha bisogno da subito di tenere sotto pressione la politica romana. E’ appena arrivato al volante che deve fronteggiare sia la protesta operaia sia la crisi dell’auto, la guerra del Kippur manda in tilt prezzo del petrolio e mercati automobilistici. Aiuti di stato alla Fiat si intrecciano con gli affari che passano per la Mediobanca di Enrico Cuccia. In quegli anni, i suoi buoni rapporti con la Francia di Georges Pompidou non riescono a sbloccare l’affare Citroen. La Fiat vuole il 51 per cento della joint venture con il costruttore francese, la collaborazione s’interrompe bruscamente nel 1973. Ma nel 1976, dato che i soldi di stato non bastano mai, a Torino arrivano quelli del colonnello Gheddafi. Per una quota di poco meno del 10 per cento del gruppo torinese, la Libia versa nelle casse dell’Avvocato 415 milioni di dollari.

Una operazione politico-finanziaria spericolata, grazie all’abilità di Cuccia e all’influenza di Agnelli, che fa da garante con l’America per la quale Gheddafi è un nemico. Da Kissinger ai Kennedy passando per i Rockfeller e i Ford, non c’è famiglia che conti con cui oltreoceano l’Avvocato non sia di casa. Relazioni rimaste forti pur con i libici in famiglia, messi fuori nel 1986 sempre in nome del business e fatti rientrare al Lingotto l’anno scorso (2002) nonostante la faccia cattiva di George W. Bush.

Gli anni Ottanta segnano l’imperversare del liberismo thatcheriano e reaganiano. A Torino registrano la vittoria della Fiat sul sindacato all’ombra di Cesare Romiti. L’Avvocato, che ama dichiararsi super partes, ha a che fare a Roma con Bettino Craxi. Scontri e affari con il Psi, mentre all’estero Agnelli persegue l’idea di allearsi con la Ford. La trattativa con Henry Ford II – quasi suo coetaneo – si arena alla fine del 1985, è la solita storia del 51 per cento per una fusione con Ford Europe che Torino vuole e Dearborn nega. Così l’Avvocato si rifà sul fronte interno. Nel 1986, l’Iri vende alla Fiat (e non alla Ford) l’Alfa Romeo. Un saldo di stagione: 1.050 miliardi di lire, pagabili in cinque anni a partire dal 1997 e senza interessi.

Il 1988 è un anno di utili record per la Fiat, tant’è che l’anno successivo Agnelli e Romiti sono a un passo dall’acquisire anche la svedese Saab, finita nell’ultima notte di trattative nella mani della General Motors. In una intervista a Le Monde, parlerà di quell’operazione mancata come di un “rimpianto”, aggiungendo di “non essere stato molto vigile” negli anni Ottanta. Forse è perché ha occhi solo per l’amata America. Lee Iacocca, siamo alla fine del 1989, gli propone di fondere le attività della sua Chrysler con quelle della Fiat. Il marchio americano è malmesso ma grazie alle capacità di lobby di Iacocca presso il governo di Washington, i soldi arrivano. L’accordo con gli italiani invece salta: Romiti dirà successivamente che a Torino è mancato il coraggio.

I tempi stanno di nuovo cambiando. La guerra del Golfo del 1991 riaccende la crisi petrolifera e l’economia tira il freno a mano, il 1992 e il 1993 saranno anni bui per l’auto mondiale. Le inchieste dei magistrati milanesi fanno saltare il sistema politico, il Caf – il patto di ferro Craxi-Andreotti-Forlani – non riesce a salvare la prima repubblica, mentre gli intrecci romani della Fiat portano i carabinieri fin dentro corso Marconi. Il 22 febbraio 1993 il pubblico ministero Antonio Di Pietro fa arrestare Francesco Paolo Mattioli, direttore amministrativo del gruppo torinese, e Antonio Mosconi, amministratore delegato della Toro assicurazioni. I due non parlano, ma dopo un po’ la Fiat cambia linea. Il risultato finale è che, per Torino, “mani pulite” diventa presto storia d’archivio.

Agnelli e Romiti lasciano alla fine degli anni Novanta quando la burrasca è passata e quando – è il 1998 – Romiti può andarsene sbandierando un fatturato record da 90mila miliardi di lire. Per l’auto torinese è però un decennio terribile, prodromo del disastro di questi mesi. Se l’Alfa Romeo rinasce grazie ad alcuni modelli azzeccati, i prodotti Fiat e Lancia vanno male. Il mondo, poi, accelera, Nel 1998 Daimler annuncia l’acquisizione di Chrysler scatenando un terremoto che sconvolge il panorama industriale dell’auto. La Fiat resta ferma. Eppure proprio Agnelli, una decina di anni prima, aveva lanciato una profezia che nei giorni della fusione DaimlerChrysler è sulla bocca di tutti: solo quattro o cinque gruppi automobilistici avranno diritto di esistere, gli altri sono destinati a scomparire o a essere assorbiti.

Nell’ora del terzo millennio, la Fiat dell’Avvocato entra in folle. Il 13 marzo del 2000 Agnelli si fa un gigantesco regalo di compleanno (lui è nato il 12), spingendo la Fiat fra le braccia della General Motors. Uno scambio azionario con il primo costruttore mondiale che prevede solo nel 2004 – quando lui probabilmente pensa di non esserci più – la cessione dell’auto torinese agli americani. Per Gm si rivelerà un accordo capestro. Sono gli anni in cui Silvio Berlusconi torna all’attacco del governo, Agnelli non lo ha mai amato, sebbene lui stesso un giorno dei primi anni Ottanta lo avesse portato in Mediobanca per farlo entrare in una finanziaria, la Consortium (ma con Cuccia il Cavaliere non s’intese).

Per Gm – e soprattutto per se stesso – Agnelli dice no a una offerta della Ford e soprattutto no a un’altra di 12 miliardi di dollari di DaimlerChrysler, che avrebbe voluto l’auto italiana tutta e subito. “Sarebbero stati un po’ più uguali di noi”, chiosò l’Avvocato parafrasando il presidente di DaimlerChrysler, Jurgen Schrempp, secondo cui l’altra acquisizione della Chrysler sarebbe stata un matrimonio “tra uguali”, in realtà una conquista seguita dalla cacciata dell’intero management locale. L’Avvocato, fingendo di sposarsi un po’ con gli americani di Gm, si limita nell’occasione a mandare a casa soli i dipendenti Fiat della sede di New York. Chiusa per crisi. (2003)

@fpatfpat

Commenti
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    Buongiorno. Potrebbe essere più esplicito quando scrive che per la Fiat mani pulite diventa presto una storia d’archivio? Che intende?

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    Buongiorno, se non ricordo male a un certo punto Romiti consegnò un memoriale a Borrelli ammettendo che anche Fiat attraverso delle controllate fu costretta a pagare alcune tangenti ai partiti. Dimostrando collaborazione e di fatto portando il gruppo in campo neutro. La saluto e grazie dell’attenzione

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