Lo scontro non titanico fra Giorgia Meloni e John Elkann – che a dire il vero non ha mai aperto bocca ma per interposti Stellantis di cui è presidente e di Repubblica di cui è proprietario – mi solletica da giorni, insieme a qualche whatsapp di amici che mi sconsigliavano di scriverne (“occhio che rischi di passare per meloniano”, “attento che sei pure collaboratore di Repubblica”). Cose così, in teoria una situazione da non mettere il dito come si dice fra moglie e marito.

Mentre meditavo sulla linea, fatti inediti mi spingevano però sul ring: una su tutte, a memoria Fiat mai ha risposto a un attacco in pubblico nella sua storia centenaria.

Stellantis però non è più Fiat da tempo e così il ceo del gruppo Carlos Tavares ha mandato a quel paese Meloni . Prima accusando il governo italiano di spilorceria sugli incentivi alle elettriche, causa (presunta) di un mercato al 4% contro una media europea di quasi il 15%, e poi (aggiustando la mira) ha fornito il tasso di export di veicoli prodotti in Italia nel 2023: il 63%. Non un 100% sovranista, ma un dato niente male in epoca di globalizzazione per quanto discussa.

Fra Elkann (a distanza) e Meloni lo scontro sulla italianità di Stellantis è così pretestuoso che per un riassunto basta andare su Google (saltate però la ridicolaggine che siccome Elkann controlla l’Economist sarebbe stata opera sua un articolo di inatteso applauso a Meloni: da quelle parti è noto che l’editore non tocca palla in redazione). Nella diatriba di carta, semmai l’unico problema di Elkann – che con la fusione Fca-Psa si è liberato del grattacapo auto cedendo ai francesi il controllo di Stellantis fra ceo e maggioranza in cda – è che Repubblica continua a perdere copie pur facendo un giornale di opposizione. E sempre che Elkann lo ritenga un problema.

Il guaio di Meloni non è Stellantis, perché storicamente nella sua cultura considera Fiat e gli Agnelli-Elkann come corpi estranei, top manager compresi. Nel luglio del 2017, quando Silvio Berlusconi straparlò di Sergio Marchionne come possibile candidato premier per il centrodestra, Meloni chiese “da patriota” una smentita (“significa aver perso il lume della ragione”), marchiando l’amministratore delegato del gruppo come uno che aveva “la presunzione di vendere macchine ‘italiane’ ” con doppie virgolette. Niente di nuovo sotto il sole, insomma.

Meloni ce l’ha con Elkann perché Repubblica l’attacca, del resto “la stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana, perché serve soltanto una causa e un regime”, diceva Benito Mussolini. La politica industriale non sembra essere tema da affari correnti per la presidente del consiglio.

A Stellantis, Meloni ha chiesto polemicamente la produzione in Italia di un milione di veicoli all’anno, quando non sono più i volumi a garantire la salute di un gruppo industriale e di chi ci lavora ma la competitività dei prodotti che una multinazionale decide di portare in una fabbrica di un paese piuttosto che in un’altra. Competitività che significa anche costi e appeal tali da rendere vendibili quei modelli.

Stellantis, che continua a presentare utili a ogni trimestrale, andrebbe incalzata diversamente sul piano industriale, dove non è tutto oro quel che luccica. Sono in grado di farlo il ministro Urso o il ministro Salvini fra una sportellata all’auto elettrica e una ai limiti di velocità?

In America era Barack Obama a trattare con Marchionne e con i sindacalisti di Uaw affiancati da Stephen Girsky, specialista finanziario cresciuto in Morgan Stanley e in General Motors, un altro mondo. Tiro un sospiro di sollievo pensando che non c’è più rischio che sia vero (se mai ci sia stato questo rischio) quanto Gianni Agnelli disse una volta a Giovanni Minoli in tv: “Quel che è male per Torino è sempre male per l’Italia”.

@fpatfpat

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