“Senza una nuova cultura aziendale, Volkswagen non si riprenderà mai da questa profonda crisi“, ha dichiarato il Prof. Ferdinand Dudenhöffer, autorevole docente di economia a Duisburg e direttore del Car, il Center Automotive Research di Duisburg-Essen. In effetti, non tutti gli analisti e investitori sono d’accordo che le misure prese finora dal management Volkswagen saranno sufficienti per uscire dall’attuale situazione, e da più parti piovono critiche circa le reali intenzioni di cambiamento all’interno del gruppo.
L’umiltà iniziale mostrata da Volkswagen, quando è scoppiato lo scandalo delle emissioni in settembre, non sembra tradursi in trasparenza con i clienti. Non è da Matthias Müller, il nuovo CEO, che abbiamo appreso che sul 2.0 litri basterà un upgrade del software, mentre sulle altre cilindrate del motore diesel EA189 VW ancora non sa che pesci prendere.
Per non parlare di Michael Horn, il capo di Volkswagen Usa, salvato dal licenziamento dai concessionari americani: in un primo momento aveva ammesso senza mezzi termini: “We have totally screwed up“. Ma qualche giorno fa ha detto: “This was a couple of software engineers who put this in for whatever reason“.
Oppure di Paul Willis, capo di Volkswagen Regno Unito, dove a sua insaputa il software era stato installato già dal 2008 e che si è sentito in dovere di dichiarare: “I find it absolutely implausible that senior people would have known about these issues with regard to the testing regime“.
Eppure il capo di entrambi, Christian Klinger, è stato finora l’unico membro del management board, oltre a Winterkorn, a essere stato fatto fuori, mentre i tre ingegneri (Hackenberg, Neusser e Hatz) responsabili, tra le altre cose, dello sviluppo dei motori, sono stati sospesi. Non licenziati.
Non c’è dubbio che Volkswagen sia un gruppo complicato, con un’influenza dominante della funzione R&D e una forte tendenza ad accentrare tutte le decisioni a Wolfsburg (fino a luglio, oltre ad essere responsabile della funzione R&D, Winterkorn era anche a capo del brand VW). Ma vale la pena ricordare che fino a poche settimane fa era indicato da molti come un esempio da seguire, con un investimento in ricerca e sviluppo di quasi 12 miliardi di euro, per intenderci superiore a quello di Samsung e Microsoft e profitti netti nel 2014 di oltre 11 miliardi di euro.
Volkswagen ha molto da imparare dalla gestione di questa crisi, che in questo senso rappresenta una grande opportunità di cambiamento. Ma individuare nella cultura aziendale del gruppo (e nello stile di management di Winterkorn) la causa ultima di quanto è successo, ci sembra fuorviante.  Più semplicemente, il gruppo ha fatto un clamoroso errore e ne pagherà le conseguenze.
Alcuni tratti della realtà Volkswagen, del resto, si ritrovano in altri grandi gruppi dell’auto, un settore che certo non brilla per diversità e trasparenza.
Anche in Toyota, per cultura apparentemente lontana da Volkswagen, comandano gli ingegneri. E tutte le decisioni che contano vengono prese dal management giapponese in Giappone. E se non sei giapponese, fai carriera se sei fedele, non necessariamente perché sei bravo.
In GM e Ford comandano gli americani e la loro ‘one best way’, in Hyundai-Kia impera la famiglia proprietaria, in Renault-Nissan e in FCA non si muove foglia che Ghosn e Marchionne non vogliano.
In tutte – indistintamente – vige la ‘malicious obedience‘.
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