Proprio su Carblogger.it più di un anno fa avevamo scommesso che la corsa per la poltrona a ceo di Renault sarebbe stato un affare tra italiani (o tra “ritals”, come vengono chiamati affettuosamente dai cugini d’oltralpe), Luca de Meo e Daniele Schillaci. Malgrado il passaporto e la formazione non da grande école, entrambi avrebbero potuto portare quella ventata di nuovo che Jean-Dominique Senard, presidente del Gruppo, aveva indicato come necessaria per rilanciare l’azienda, rafforzare l’alleanza con Nissan e soprattutto rimettere i conti in ordine. Qualche mese dopo, de Meo veniva indicato come futuro numero uno e lo scorso luglio si è insediato a Billancourt.
Il manager italiano non ha tardato a far sentire il suo peso. Già in estate ha iniziato una robusta campagna acquisti portando via alla concorrenza personaggi del calibro di Gilles Le Borgne, uno dei maggiori esperti di ingegneria di prodotto, o Gilles Vidal e Alejandro Mesonero, due dei designer più apprezzati in Europa. Per non parlare del rilancio del team della Formula 1 con il ritorno di Fernando Alonso, che proprio con la Renault ha vinto due titoli mondiali. Insomma, la squadra prima di tutto.
Al manager italiano va subito il merito di aver ricompattato il gruppo, di aver restituito orgoglio di appartenenza e insieme di aver semplificato nettamente l’organizzazione interna. Oggi più “piatta” e strutturata per brand, Renault, Dacia, Alpine e Mobilize, cosa che de Meo non fa mistero di aver mutuato dal gruppo Volkswagen in cui ha passato gli ultimi dieci anni, subito dopo l’esperienza nella Fiat di Marchionne. Allo stesso tempo, de Meo ha iniziato a pianificare una serie di sostanziosi tagli e razionalizzazioni, necessari per un’azienda che nell’era Ghosn ha costantemente sofferto di sovracapacità produttiva, senza mai raggiungere il target di 5 milioni di vendite fissato dal carismatico leader di origine libanese.
Queste azioni sono state di fatto la premessa al piano strategico presentato la scorsa settimana: “Renaulution” il suo suggestivo nome, e si compone di tre fasi , Resurrezione (fino al 23), Rinnovamento (fino al 25) e infine la Rivoluzione (dopo il 25). In grande sintesi, potremmo dire che si va dal risistemare i conti a una rifocalizzazione sui fondamentali – prodotto e brand – per poi evolvere verso una mobility company, o, come scritto nel piano, dall’essere un carmaker che integra tecnologia ad un techmaker che integra automobili.
L’ambizione minima è quella di portare il margine operativo nel medio al 3% , fino al 5% nel 25: numeri che devono aver lasciato tiepida la borsa, se è vero che il titolo ha perso terreno anche dopo la presentazione del piano strategico.
Si sa come ormai il mercato abbia perso fiducia nei costruttori tradizionali, anche quelli che continuano a macinare profitti e con rendimenti elevati, mentre premi oltremodo i cosiddetti “disruptors” come Tesla. Eppure, da un piano apparentemente ben congegnato non era legittimo aspettarsi una accoglienza più favorevole? La nostra impressione è che gli analisti abbiano innanzitutto guardato ai numeri e non siano rimasti convinti dal nuovo approccio: target “realistici “ che però devono “essere costantemente overdelivered”.
Un piano molto incentrato sul prodotto e sul brand pone degli interrogativi di merito proprio sulla capacità di recuperare profitto facendo leva su questi due elementi. Certo, l’efficienza operativa , la razionalizzazione delle piattaforme massimizzando lo sviluppo su quelle in comune con Nissan sono argomenti convincenti, ma quale è la vera capacità di Renault e di Dacia/Lada di attrarre clienti su segmenti più profittevoli e di chiedere ai quei clienti più di quello che pagano oggi?
De Meo dice: siamo cresciuti in volume, ma non in qualità. È certamente vero, ma per una marca come Renault, molto concentrata sul mercato europeo di gran lunga il più competitivo (e meno profittevole ) al mondo, spostarsi più in alto non sarà facile, soprattutto perché quello spazio è oggi più che affollato. Anche da Nissan che, malgrado una fase di chiaro appannamento, ha comunque un forte radicamento nel segmento dei suv, la più redditizia, che produce peraltro in Europa.
E ancora: è possibile sull’intera catena del valore migliorare i profitti con le nuove tecnologie, soprattutto con l’elettrico? Certo, c’è l’ibrido, ma i costruttori asiatici non molleranno facilmente – la crescita in Europa di Toyota sta avvenendo grazie alla scelta di aver abbandonato il diesel prima di tutti per concentrarsi su questa tecnologia. E l’elettrico puro pone non pochi interrogativi, nei costi come soprattutto nella capacità di produzione ed approvvigionamento delle batterie, oggi appannaggio esclusivo degli asiatici, cinesi in testa.
Personalmente trovo un importante fattore di rischio nell’attuale “sales distribution”: oggi le vendite di Renault sono molto concentrate in Europa e nel continente in 3-4 paesi. Il settore insegna che per migliorare la qualità delle vendite, pur con meno volumi, ci vuole una migliore distribuzione geografica per ridurre rischi ed accrescere le opportunità di profitto. Per esempio, il Gruppo è molto debole nei paesi scandinavi, quelli dove le vendite di plug-in ed elettrico sono in percentuale più elevate e in assoluto più redditizie.
Insomma, le sfide e le incognite per de Meo restano molte e probabilmente il mercato avrebbe apprezzato un po’ più di radicalismo – azzardiamo, concordare l’uscita del marchio Nissan dalla regione Europa e una simultanea rifocalizzazione sulla Russia? – perché, come mi ricorda un amico, la rivoluzione non è un pranzo di gala. Ma un atto in cui una classe ne rovescia un’altra. Mi fa venire in mente quel che diceva Diderot: “Una rivoluzione rimandata di un giorno non si fa più per sempre“. Ma credo che questo de Meo lo sappia perfettamente.
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