Salgo sull’aereo per andare al Salone di Ginevra – il più caro dei saloni, il più aperto a tutti i costruttori migranti non avendone uno in casa – e rimugino se chiedere asilo politico appena atterrato dopo il risultato elettorale. E e su due o tre cose da non scrivere. Ma chiudo gli occhi e non posso fare a meno di pensarle.

Che ineleganza che Opel quest’anno non sia a Ginevra. Lo hanno deciso a Parigi i nuovi proprietari francesi di Psa, che giusto il 6 marzo dell’anno scorso avevano annunciato l’acquisizione del marchio tedesco. Lo so, lo so: Opel non ha novità da portare al Salone, del resto Peugeot non c’era a Francoforte nel settembre scorso per lo stesso motivo. Taglio dei costi. Però sul piano simbolico mi è sembrata una decisione un po’ padronale. Tanto più che Carlos Tavares, numero uno del gruppo carolingio, rivendica di aver trovato la strada giusta limitando le perdite di Opel. Ginevra è anche numeri e segni: non è questo il migliore.

M’incuriosisce quello di Ford, che va al Salone di Ginevra ma è quasi come se non ci andasse. Infatti la sua vera novità, la nuova Focus, non ci sarà. Sarà svelata in un evento ad hoc in aprile sul quale concentrerà tutta la comunicazione, come ha fatto nel dicembre del 2016 con la nuova Fiesta a Colonia. Dopo aver saltato come marchio (due mesi prima) il Salone di Parigi.

Viene da pensare che Ford starebbe per risolvere l’assillo morettiano – vado ai saloni o mi si nota di più se non vado – scegliendo ciò che in politica si chiamava un tempo la terza via: una presentazione globale a se stante, fuori da kermesse dove la luce riflessa va dispersa inevitabilmente su tutti i presenti.

Una risposta di marketing alla crisi della forma-salone che, Ginevra a parte, funziona sempre meno. Tant’è che il vituperato Detroit potrebbero spostarlo addirittura in ottobre, per provare a sfuggire alla concorrenza di Los Angeles e del Ces di Las Vegas.

Sobbalzo a un vuoto d’aria, ma era solo un tweet di Trump. Che forse non sa nemmeno dov’è Ginevra, ma che agitando dazi sulle auto importate dall’Europa ha creato un cono d’ombra sul salone svizzero. Già un anno fa, con la cancelliera Angela Merkel aveva minacciato dazi del 35% sulle macchine tedesche. Ma così facendo, Trump  rischia di togliere (dopo aver dato)  soprattutto alle aziende americane.

Alle quali fa prima un regalo fiscale pazzesco (Marchionne ci è salito su per primo, imbattibile quando si tratta di far di conto) per poi promettere pesanti dazi su acciaio e alluminio, cioè la materia di cui sono fatte le  automobili. Acciaio, di cui l’America è primo importatore al mondo.

La verità è che Trump non sopporta i cinesi (ne dovrebbe sapere qualcosa Marchionne, ad Auburn Hills non arriveranno mai), salvo che con la scusa di colpire loro, continua a dare schiaffi a tutti gli altri, un po’ di più ai deboli europei. Se va avanti così, sono grossi guai ovunque, anche chiedendo asilo a Ginevra.

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