Non sarà originale l’immagine del pentolone in ebollizione, ma è quella che fotografa meglio la fase che sta vivendo l’automotive italiano: tanta roba al fuoco ma non si capisce bene che menù sarà servito. I segnali intanto si susseguono con una intensità rara. Prima l’intervista lunga e densa al Corriere della Sera di Carlos Tavares. Poi l’incontro riservatissimo a palazzo Chigi fra Mario Draghi e John Elkann. Infine l’intervista rassicurante a La Stampa del capo globale del personale di Stellantis, Xavier Chereau, una sorta di excusatio non petita, per sottolineare che Torino è sullo stesso piano di Parigi e Detroit per quanto riguarda la ricerca del gruppo.
Già, ma di cosa scusarsi? La verità è che siamo in un campo ignoto. I segnali che emergono non possono più essere letti lungo le fratture classiche: capitale/lavoro; Francia/Italia; multinazionali/politica. Stellantis è un’azienda con Dna diverso da Fca per stazza, ambizioni e perché – come toccheremo con mano fra poco – sta innestando sulla sua natura manifatturiera una competenza tecnologica che esula dall’automotive.
Sullo sfondo il destino di 2.100 imprese italiane del settore pienamente integrate nelle catene del valore internazionali ma che devono riconvertirsi dai pistoni dei propulsori endotermici ad auto che saranno computer su quattro ruote.
Una premessa così lunga è inevitabile per tentare di capire se l’auto italiana avrà ancora qualcosa da dire nel futuro. La partita si gioca intorno a due pilastri della strategia di Tavares per l’Italia: da una parte la trasformazione in gigafactory dello stabilimento di Termoli, in Molise, che oggi sforna per tutto il mondo i motori a benzina T4, Gse e ancora qualcosa del mitico Fire del 1980 e dall’altra l’obiettivo di riportare in attivo entro il 2022 il bilancio dei 12 stabilimenti di auto e motori di Stellantis Italia che – tranne quello che produce furgoni Ducato in Abruzzo – perdono soldi da più di 25 anni.
Il nodo di Termoli è tutto sommato semplice. Stellantis ha già avviato la costruzione di due gigafactory in Francia e Germania. Quella di Douvrin dovrebbe entrare in funzione nella seconda metà del 2023 con una capacità di 24 GWh. L’inaugurazione di quella di Kaiserslautern è invece prevista per il 2025 per una analoga potenza. L’investimento complessivo è di 5 miliardi di euro parte dei quali a carico dei ministeri delle Finanze di Parigi e Berlino.
L’obiettivo dichiarato è di produrre batterie per 1 milione di auto con il coordinamento di una joint venture fra Stellantis e Total cui si è unita Daimler con il 33% delle azioni. Termoli equivarrebbe a una ciliegina sulla torta e chiaramente consentirebbe alla componentistica italiana di agganciarsi a una nuova filiera tecnologica. Peccato che a otto mesi dall’annuncio di Tavares su Termoli non c’è alcun accordo con il governo italiano sugli incentivi a carico del Tesoro. Ritardo inspiegabile anche per la Spagna, dove vengono assemblate il doppio delle auto che Stellantis produce in Italia, che ovviamente vorrebbe avere anch’essa un impianto di batterie. Questa partita dovrebbe comunque chiudersi entro il 15 febbraio.
Il discorso si fa complesso invece per il futuro delle 12 fabbriche italiane, dei centri di ricerca e della struttura centrale di Torino che occupano circa 50.000 persone. Tavares lo ha detto in tutte le salse: in Italia si fabbricano auto a costi superiori agli altri impianti europei del gruppo anche se per il lavoro (contributi compresi) si spende meno che altrove.
Il manager portoghese non è disposto a tollerare che le fabbriche italiane siano “mantenute” dai dipendenti europei, americani e brasiliani di Stellantis che invece producono utili. Ha torto? Un numero del 2021 ci aiuta a capire: in Usa 80.000 lavoratori Chrysler sfornano quasi 2 milioni di pezzi, in Italia in 50.000 ne hanno fabbricate 600.000. Dunque il problema c’è e non va nascosto sotto il tappeto se vogliamo davvero tutelare l’interesse strategico italiano di restare fra i paesi padroni di una manifattura tecnologica d’avanguardia.
Come? Iniziamo col capire come siamo finiti nel pantano. La rete italiana di Fiat è in perdita dalla notte dei tempi. La parte produttiva era così scassata che Sergio Marchionne nel 2005 decise di cambiare completamente il modello di business spostando la produzione italiana dalle utilitarie (con l’eccezione della Panda riportata in Italia dalla Polonia) a modelli premium e semipremium destinati essenzialmente all’export, in particolare negli States.
Per produrre auto sofisticate serviva però un modello di lavoro più fluido e di qualità più alta, con tecnologie costose (cobot e tablet sulle linee di montaggio), partecipativo e con una riduzione ergonomica della fatica e quindi dell’assenteismo. Con la spinta decisiva di Stefan Ketter, ingegnere tedesco ex Volskswagen e capo del manufacturing per un decennio, Fca adottò il sistema World Class Manufacturing ideato dal professor Hajime Jamashina, sul quale furono tarate tutte le fabbriche e persino il contratto di lavoro aziendale. Intanto Marchionne dirottò alcuni miliardi di utili accumulati in America su massicci investimenti nelle fabbriche italiane, in particolare quelle Maserati e Alfa Romeo di Torino e Cassino rifatte da capo a piedi.
E’ “colpa” del Wcm se le fabbriche italiane sono in rosso? Difficile affermarlo perché quelle americane ex-Fca, che usano il Wcm adattato a quella realtà, vanno come treni. Cos’è, allora, che non funziona?
Tavares ha disposto immediatamente una riduzione delle spese per la pulizia di fabbriche ex Fiat che erano tenute a specchio. Ma il problema numero uno sono i volumi. Cassino è tarata su 300.000 pezzi l’anno e ne sforna 50.000, impossibile recuperare l’investimento in robot e laser.
L’altro tema è quello della presenza di alcuni colli di bottiglia in una organizzazione del lavoro complessa. Esempio: tutte le stazioni di montaggio prevedono 7 operai compreso il coordinatore team leader, e invece alcune aree di lavoro con 5 o con 8 operatori farebbero guadagnare tempo e denaro. C’è poi il ruolo dei direttori delle fabbriche. Con l’accoppiata Marchionne-Ketter erano esecutori, Tavares li ha “liberati” giudicandoli su parametri di efficienza e qualità.
Il nodo più complicato è la logistica visto che una fabbrica come Melfi scarica anche 200 Tir al giorno. Su questo punto, sul quale Tavares insiste moltissimo perché riduce i costi dei materiali ordinati, il manufacturing ex Psa è intervenuto nell’ultimo anno eliminando doppioni come le linee di montaggio di Grugliasco, uno stabilimento con poco spazio a disposizione, trasferite nella vicina e più comoda Mirafiori che era vuota.
Infine, come è stato fatto anche in Opel, la nuova gestione sta minuziosamente eliminando aree di rendita di posizione “asciugando” il numero dei dipendenti. L’azienda tedesca ha perso in 4 anni 8.000 dei suoi 38.000 dipendenti. In Italia, senza contare le mancate sostituzioni di chi va in pensione, sono ormai più di 1.500 gli esodi incentivati con cifre dell’ordine di 75.000 euro lordi anche per mansioni di basso profilo.
Resta comunque un problema molto difficile da risolvere: le linee produttive ex Psa in Francia e in Spagna sono popolate da operai più giovani di quelli italiani. Gli immigrati sono moltissimi, molti più che da noi, anche nelle fabbriche iberiche. Detto in termini più brutali: il modello produttivo Psa è più semplice di quello ex Fiat anche perché dispone di una manodopera con profili diversi da quelli che si sono stratificati in Italia.
Per tenere aperte tutte le fabbriche italiane d’auto comunque la soluzione chiave sta nell’aumento della produzione che nel 2021 è stata di appena 600.000 pezzi anche a causa della crisi dei microchip. Tavares ha già reso noto che Melfi dal 2024 produrrà 4 nuovi modelli (anche a marchio Peugeot) e componenti elettriche, a Pomigliano è tutto pronto per il Tonale e probabilmente per la sua cugina Dodge Hornet destinata al mercato Usa, a Mirafiori è stata raddoppiata la produzione della 500 elettrica, le Maserati Grecale e le Granturismo dovrebbero entrare in produzione quest’anno. Si parla di Giulia e Stelvio ibride. Alla fabbrica di motori di Pratola Serra è stato assegnato il nuovo diesel euro7.
La carne al fuoco è tanta ma non mancano le incognite. Marchionne aveva una strategia chiarissima per Maserati e Alfa Romeo ovvero per i marchi ad alto valore aggiunto destinati a rimettere in sesto la rete produttiva italiana: una piattaforma iper-raffinata, come la Giorgio, sulla quale costruire modelli di qualità superiore.
Ma dal 2016, da quando Fca ha cambiato strategia e puntato tutto sull’eliminazione del debito per prepararsi a una fusione, sono venute meno le risorse finanziarie per sostenere i due marchi premium e lusso. Tavares ha scelto una strategia diversa con quattro piattaforme per tutti i modelli dei 14 marchi del gruppo, compresi quelli premium. Funzionerà? Arriveranno i numeri per Alfa e Maserati e dunque un futuro per l’auto made in Italy?
Su questo punto, così come sulle iniziative per allargare lo spazio per la componentistica italiana, manca una voce: quella del governo di Roma.
[…] Lapouquitousse), mentre sulla promessa di non chiudere fabbriche (quelle italiane sono in rosso, come ben spiega qui Diodato Pirone) per la prima volta agita […]